Recensione di “L’amore molesto” di Elena Ferrante
L’attrazione che muta in repulsione, il desiderio che si fa disgusto, il corpo che sembra perdere ogni bellezza, ogni armonia, ogni incanto, per ridursi ai suoi elementi primi, alla carne grigia e inerte insultata dal tempo, al moltiplicarsi delle sue imperfezioni, a quell’anonimato replicato in milioni di volti, gambe, mani, busti, fianchi cui inutilmente si tenta di fuggire attraverso il seducente miraggio della biancheria intima più costosa e raffinata, o nascondendosi nella rassodante illusorietà di creme per la pelle, o ancora trasformando se stessi in qualcosa d’altro immergendosi nello stregato calderone del belletto, dove senza sosta bollono gli ingredienti di una seduzione nata vecchia: le mille e mille sfumature del rossetto, i colori posticci del fard, le scale di intensità del pallore regalate dalla cipria.
E la seduzione che si corrompe, si decompone come materia organica privata della vita e senza vergogna si mostra nei panni stracciati e miseri dell’esibita oscenità, della volgarità più patente, e il disco rotto del sesso, che ostinatamente inciampa sulla stessa nota stonata, quella della prova di forza, dell’uomo che costringe la donna, la domina, che goffo e cieco interpreta il suo ruolo con l’abitudinaria indifferenza del bue aggiogato, come nulla fosse, per evitare di riconoscere che è debole, solo, inutile e vile. Questa la soffocante atmosfera in cui si trova immersa Delia, disegnatrice di fumetti alle prese con l’improvvisa, misteriosa morte per annegamento della madre Amalia; costretta a lasciare Bologna, dove vive, per tornare nella Napoli dei suoi anni di gioventù, una città che stenta a riconoscere e dove i suoi ricordi confusi si scontrano con un’inquietante realtà d’incubo fatta di sordidi segreti che si svelano poco alla volta, Delia è protagonista e voce narrante del bellissimo e disturbante romanzo d’esordio di Elena Ferrante, intitolato L’amore molesto (in seguito diventato, con questo stesso titolo un film diretto da Mario Martone). Ogni cosa passa attraverso la tormentata sensibilità di Delia, che vuole e non vuole ricordare la sua vita; i rapporti mai semplici eppure colmi d’amore con la madre, l’estraneità, ricambiata, nei confronti delle sorelle, e più di tutto la gelosia violenta del padre, pittore di nessun talento, artista da mercato popolare incapace di accettare che la donna che aveva sposato potesse ricevere anche solo uno sguardo di ammirazione da qualcuno che non fosse lui, e pronto a punire ogni slancio verso la moglie, anche il più galante, anche il più innocuo, a suon di sberle, pugni e calci, pronto a scaricare sull’innocente bellezza di una donna semplice la propria colpevole insicurezza, la propria criminale viltà.
Ma cosa è successo davvero ad Amalia? Si è suicidata? È stata una fatalità? O forse qualcosa di più terribile? E che cosa ha a che fare con la sua morte la presenza di un uomo, soprannominato Caserta, da sempre coinvolto nella vita della mamma di Delia e dunque da sempre presente nei ricordi di lei, forse presente a tal punto da essere una sorta di ossessione, forse a tal punto negli occhi, nel cuore, nella fantasia di Delia bambina da aver trascinato la sua immaginazione oltre ogni confine, scatenando qualcosa di così terrificante da non voler essere ricordato a nessun costo? La Ferrante ruota intorno a una serie di domande che sempre tornano su se stesse ogni volta da angolazioni differenti e sulle quali non fa luce se non parzialmente, dando vita a un labirintico gioco di specchi che una scrittura allo stesso tempo raffinata e potente, viva, carnale, sgradevole e viscida come ciò che racconta deforma fino a farne un’esperienza allucinatoria; nella sua prosa, che non offre appiglio né respiro, ci si trova nel medesimo tempo imprigionati e immersi, complici quasi di una Delia che è vittima e carnefice, che non sa cosa stia cercando e che pure avanza sicura in acque torbide, persuasa che la strada che sta percorrendo in qualche misura è dentro di lei e che, lo voglia o meno, al momento giusto le si svelerà.
Così, nell’andamento di un romanzo che sembra avere i toni del thriller ma che in realtà non è che un cupo, disturbante e splendido dramma, ecco che ci si trova faccia a faccia con gli abissi in cui dimora tutto ciò che è umano, abissi la cui geografia non sarà mai compresa e conosciuta del tutto ma nei quali a dominare sembrano essere sempre sconfitta e un dolore per il quale non esiste rimedio.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno.