Recensione di “Il commissario” di Sven Hassel
L’orrore mutato in comicità, la paura che si dissolve in un ghigno, la realtà vestita d’assurdo, così strettamente aggrovigliata a situazioni improbabili, assurde e folli da perdere qualsiasi somiglianza con il vero, con tutto ciò che ha qualche probabilità di accadere.
In una parola, un narrare che consapevolmente procede verso il proprio cortocircuito, che perde aderenza con i fatti nel momento stesso in cui si accinge a raccontarli, che dilata il qui e ora in un disegno incomprensibile e grottesco nel quale nulla può essere spiegato. Ecco il modo in cui Sven Hassel, scrittore danese dalla controversa biografia, si misura con l’indicibile rappresentato dalla guerra e dai suoi abissi. Autore di una serie di romanzi di successo i cui protagonisti sono uomini inquadrati in un reparto di disciplina dell’esercito tedesco che tra le proprie fila conta criminali comuni, oppositori politici e disertori, Hassel, personaggio tra gli altri, sceglie il mondo alla rovescia di un esasperato (e del tutto incoerente) divertimento per provare a descrivere il ben più tragico mondo alla rovescia di un conflitto che non risparmia niente e nessuno, né umanità né vite umane: “A metà della scala che porta a una cantina è ferma una jeep di fabbricazione americana con cinque corpi a bordo, tutti privi della testa. Sono seduti in posizione eretta, quasi stessero sfilando in parata. È come se un gigantesco coltello avesse tagliato via con un’unica falciata le teste dei quattro ufficiali russi e dell’autista. C’è qualcosa di strano nell’aspetto di quei cadaveri decapitati. Non indossano la tenuta da combattimento kaki bensì uniformi da parata verde scuro, con grandi spalline che luccicano sotto il riverbero delle fiamme sprigionate da una distilleria che brucia nelle vicinanze […]. È quello che è […]. Un vero rappresentante dei tempi nuovi. Un soldato tedesco ben addestrato che caga e mangia secondo il regolamento e tiene divaricati i piedi sull’attenti e si sente felice come un paraculo finché può stare in compagnia degli idioti patriottici e dei generali con i capelli tagliati a zero e il monocolo appiccicato a un occhio. Heil Hitler!”. La morte, che è ovunque e colpisce in ogni istante; il fronte – in questo romanzo, intitolato Il commissario, siamo in Ucraina – che rende pazzi e lascia ai combattenti solo un ferino istinto di sopravvivenza a ogni costo, i morsi della fame e del gelo, l’ansia soffocante di non farcela e il bisogno assoluto di credere che la salvezza sia possibile e che l’incubo un giorno possa finire si riflettono distorti e depotenziati nel cinico menefreghismo degli uomini senza onore e senza dignità di Hassel. Così, attraverso i loro occhi, egli può farsi beffe della più grande catastrofe del Novecento: irridere l’odio antiebraico dei nazisti e le loro politiche di sterminio, ridurre a insulto la magniloquente espressione massimo condottiero di tutti i tempi (Gröfaz Grösster Führer aller zeiten nell’abbreviazione tedesca della formula con la quale Hitler veniva celebrato dalla stampa tedesca al principio della guerra), prendersi gioco delle milizie russe staliniane, strette nella morsa dell’assalto tedesco e della spietatezza del loro dittatore,e soprattutto considerare la guerra, alla quale prendono parte con incosciente fatalismo, alla stregua di un gioco; tutt’altro che innocuo, sia pure, ma gioco, nonostante ciò. Il reparto di Sven Hassel somiglia dunque a una nave dei folli – che tuttavia ben presto si rivelano più savi di tutti gli altri, parti in conflitto, marionette senza coscienza né volontà proprie mosse da Mangiafuoco privi di scrupoli e fin troppo spesso anche di intelligenza e capacità – che trascinata dalla corrente degli eventi passa di avventura in avventura, rischiando a ogni momento di affondare ma riuscendo sempre, alla fine, a trovare il modo di resistere. Un’ora in più, un giorno in più. Perché la guerra terminerà prima o poi, occorre solo essere più tenaci di lei, voler vivere più di quanto essa voglia far morire.
E per continuare a vivere, niente è più indispensabile di un sogno. In questo caso, quello che Hassel e i suoi compagni – il gigantesco e indistruttibile Fratellino, l’astuto doppiogiochista Joseph Porta “Obergefreiter per grazia di Dio”, Beier, soprannominato il Vecchio, rispettata guida del gruppo, Martin, ex autista di un generale (che la truppa di Hassel chiama “Culo e braghe”) ed espertissimo contrabbandiere, Kalb, ex membro della Legione Straniera, Barcelona, veterano della guerra civile spagnola e infine Heide, fanatico nazista (il solo della compagnia a credere davvero nel Führer e nella “vittoria finale”) – assaporano è quello della ricchezza; oltre le linee russe, infatti, sono nascosti 30 milioni (di dollari) in lingotti d’oro. Prenderli, naturalmente, non sarà facile; per riuscirci il gruppo dovrà per prima cosa ingannare i propri commilitoni fingendo di essere stato selezionato per una missione segretissima e poi stringere un’alleanza con un manipolo di soldati russi guidati da un potentissimo commissario del popolo stanco di Stalin, dei nazisti e delle stragi quotidiane cui è costretto ad assistere.
Eccovi l’incipit. La traduzione per Rizzoli, è di Giorgio Cuzzelli. Buona lettura.
Il Gauleiter aveva fretta. Guidava come un pazzo senza curarsi dei profughi che intasavano la strada. Era al volante di un grosso autocarro a sei ruote, stracarico. Era stato il primo a lasciare la città.