Recensione di “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion
Gli episcopali prendono la comunione, sono i cattolici a riceverla. A prima vista può sembrare soltanto una differenza di atteggiamento, e naturalmente è anche questo, ma non è soltanto questo. Gli episcopali e i cattolici.
Un’osservazione tra milioni di altre. Il principio o la fine di un discorso tra i tanti. Così numerosi che è del tutto impossibile ricordarne anche solo una parte. Ricostruirli. Datarli. Ambientarli. E allora perché, per quale ragione a tornare alla memoria è proprio il diverso atteggiamento verso la comunione che connota cattolici ed episcopali? Perché quello e non un altro? Ha un significato questa scelta? E se l’avesse, quale potrebbe essere? Di cosa, esattamente, sarebbe la spiegazione? Forse, risponde Joan Didion nel suo splendido e straziante L’anno del pensiero magico (in Italia edito da Il Saggiatore nella traduzione di Vincenzo Mantovani) questa misteriosa operazione del ricordo non è che parte di una complessa strategia di sopravvivenza, o il passo di un rito, o uno dei momenti è suddivisa la formulazione di uno scongiuro; forse si tratta della risposta che prova a dare chi è vivo all’irrompere improvviso della morte. È il 30 dicembre del 2003 e John Gregory Dunne, scrittore e sceneggiatore di successo sposato da quarant’anni con la collega Joan Didion e padre di una ragazza, Quintana, da settimane ricoverata nel reparto di terapia intensiva di un ospedale newyorkese in seguito a gravissime complicazioni sorte all’indomani di quella che sembrava una banale influenza di stagione, a tavola per cena, nel bel mezzo di una chiacchierata, si accascia e piomba a terra. Arresto cardiaco. Nei minuti che seguono accade quel che deve accadere in situazioni come queste; la moglie, allarmata, sotto shock, riesce comunque a non perdere del tutto la calma, chiama l’ambulanza e i soccorsi giungono tempestivamente; il personale medico e infermieristico si rende immediatamente conto della gravità della situazione e comincia a darsi da fare. Poi il trasporto in ospedale. Dove Dunne giunge già morto. Perché era morto subito, in casa. Perché il suo cuore era debole dalla nascita, e perché quel che ha ceduto, nel suo organismo, doveva cedere. Era tempo che cedesse. Anni prima lo scrittore era stato operato per questo suo difetto, e l’intervento era andato bene, gli aveva permesso di vivere a lungo; ma quel che era stato rimesso a posto non poteva reggere per un tempo indefinito. Niente può farlo. L’uomo è mortale. Tutti gli uomini sono mortali. John Gregory Dunne, Socrate, chiunque altro sono uomini. Dunque Socrate, John Gregory Dunne, chiunque altro, sono mortali. E poiché sono mortali, muoiono. La logica, nella sua spietata chiarezza, nella sua totale impermeabilità a qualsiasi obiezione non sia essa stessa logica, può essere un veleno per lo spirito umano se affiora al pensiero quando non è ancora giunto il suo momento. Ed è esattamente questo che succede a Joan Didion nel momento in cui realizza che suo marito non sarà più con lei; la logica del fatto, la verità della tragedia si impone a un livello (quello della ragione) che la mente non è preparata ad accogliere.
Perché non è armati dell’inattaccabilità di un sillogismo – certo che tutti si muore, ma cosa succede quando si muore davvero? – che si può affrontare la perdita irrimediabile di chi ci è stato accanto da sempre (sono gli anni, in fondo, la migliore approssimazione al vertiginoso concetto di eternità di cui le persone possono fare concreta esperienza); forse, il solo modo in cui si può tentare di farlo è affidarsi alle risorse del pensiero magico, un cortocircuito lucido di immaginazione, ricordo, speranza e sogno cui si dà il potere, in parte illusorio in parte assolutamente reale, di cambiare le cose. Potrebbe tornare John, si domanda a più riprese la moglie? Sì, potrebbe, risponde a se stessa, rifiutando di liberarsi delle sue scarpe (come potrebbe muoversi se non le avesse?) dopo aver tuttavia accettato di fare piazza pulita dei vestiti. E dunque potrebbe veramente tornare, John? No, naturalmente no. Forse però sarebbe stato possibile non permettergli di andarsene. Forse, se solo lei avesse fatto tutto ciò che andava fatto lui si sarebbe salvato. Poteva, John, sopravvivere all’arresto cardiaco? No, non poteva. Ma grazie al pensiero magico che ha aperto questa prospettiva Joan Didion trova la forza per leggere, documentarsi, conoscere, capire, confrontarsi con ciò che le ha ucciso il marito e persuadersi che non avrebbe potuto fare nulla, assolutamente nulla, perché quel 30 dicembre 2003 non fosse l’ultimo giorno di John Gregory Dunne, scrittore e sceneggiatore di successo, da quarant’anni marito della collega Joan Didion e padre della loro figlia, Quintana.
L’anno del pensiero magico è un libro indimenticabile, qualcosa che senti scorrere dentro te come fosse sangue; è un libro autentico, di lacerante sincerità; non ci dicono, le sue pagine, quel che ogni riflessione sulla morte, dalla più scontata alla più illuminata e colta, non fanno che ripeterci, che il tempo ripara ogni cosa, perché il tempo si limita a scorrere e non ha la forza di rimediare a nulla, non ha nulla di magico; ci dicono invece che la morte è un’amputazione e che da un’amputazione non si torna indietro. Alla morte, quando colpisce chi amiamo, si resiste soltanto perché le si sopravvive. E quando rimani vivo non hai altra scelta: devi vivere.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione. Ecco le prime parole che scrissi dopo che accadde.