Recensione di “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas
Più che un romanzo sull’umano, il romanzo dell’umano, di tutto ciò che dell’umano è nutrimento. Romanzo di passioni, dunque, di sentimenti, di abissi e vertigini, vendette e perdoni, egoismi e nobilissimi abbandoni, cadute e rinascite, tragedie e lieti scioglimenti.
Romanzo esistenziale, filosofico, misterioso, inesplicabile, che interroga i moventi più segreti, si addentra nei cuori, indugia nelle anime, si muove nella penombra di quel che viene pensato, immaginato, provato e che solo pallidamente e in frammenti giunge alla luce del fatto compiuto. Per questo ogni azione riluce di perfezione, nell’abiezione come nell’egoismo, nella commozione autentica del bene così come nell’imperdonabile spietatezza del male. Capolavoro indiscusso di Alexandre Dumas e classico della letteratura, Il conte di Montecristo è un romanzo autentico, cristallino, di un verità quasi abbacinante nella misura in cui ciò di cui narra – le traversie del marinaio Edmond Dantès, tradito da coloro che credeva amici, condannato innocente, costretto a quattordici durissimi anni di prigione e infine, in seguito a una rocambolesca evasione, impegnato a pianificare fin nei più minuti dettagli una feroce vendetta ai danni dei suoi persecutori – non è la nudità dei nostri atti ma la spinta ideale (e purissima) che dà loro vita. Come scrive Michele Mari nella prefazione all’edizione italiana dell’opera pubblicata da Einaudi (traduzione di Margherita Botto): “Quando Edmond Dantès entra nel castello di If, la sera del 1° marzo 1815, lord Byron non ha ancora abbandonato l’Inghilterra, e dovranno passare un anno e tre mesi prima che il suo medico e segretario, nel contesto di un certamen privato celebre per aver suscitato il Frankenstein di Mary Wollstonecraft, futura signora Shelley, lo vampirizzi letterariamente e letteralmente per ricavarne il protagonista del proprio racconto. Lord Ruthven, questo il nome del vampiro di John William Polidori, è il prototipo di un tipo, appunto, molto fortunato, anche se per la sua definitiva consacrazione occorrerà attendere il Dracula di Bram Stoker. In questa vicenda si inserisce in modo decisivo Alexandre Dumas, che seppellendo vivo Edmond Dantès, il vivo-morto, e facendolo evadere in forma di finto cadavere (il morto che vive), lo destina naturalmente al ruolo di vampiro e di revenant […]. Il nostro protagonista giunge dunque dal regno dei morti (sarà un caso ma il suo cognome rievoca Dante) e assurge alla gloria di un paradiso mondano: e che la sua residenza parigina sia agli Champs-Élysées, a questo punto, non sarà più un caso”. Sotto il velo della morte che torna alla vita, in uno scenario in cui ciò che è disincarnato – il sentimento in ogni sua sfumatura – domina sulla carne, rendendo così, se non del tutto credibile di certo non contraddittorio un concatenarsi di avvenimenti che lascia stupiti per esattezza, precisione, supina obbedienza agli intelligenti disegni degli uomini, ogni cosa si compie come fosse per volontà di Dio. La sete di rivalsa di Dantès non è perciò la semplice vendetta di un uomo, non è una reazione dettata dal risentimento, dalla rabbia, è l’idea platonica della vendetta, la sua quintessenza, che cala nel mondo come inviolabile necessità; allo stesso modo, in un movimento uguale e contrario, i nemici di Dantès sono agiti da sentimenti immensamente più grandi di loro: Danglars da una sorda invidia, Caderousse da un’avidità smisurata, Fernand dal travolgente amore per una donna che si è promessa a Dantès, de Villefort da una non meno divorante ambizione. Questo naturalmente non cancella le loro responsabilità per le terribili sofferenze inferte a un uomo che chiedeva soltanto di essere felice accanto ai suoi affetti (la bellissima fidanzata Mercédès e l’amato padre) ma le presenta sotto una prospettiva originale e sorprendente.
Il conte di Montecristo, infatti, è senz’altro una storia d’avventura ricchissima di colpi di scena, una lettura emozionante, straordinariamente avvincente, eppure tutto questo non è che la superficie del lavoro letterario di Dumas; al centro c’è l’inesplorato, quel che non si conosce nemmeno quando lo si prova, neppure quando ne siamo dominati; al centro c’è l’amore che rende folli, il desiderio che rompe ogni argine, un sentire così violento da scardinare qualsiasi prudenza, e sono queste cose, è l’impalpabile vita dello spirito a costituire l’architettura di un romanzo in cui accade tutto quello che può accadere ma niente di quel che accade ha realmente importanza a meno che non ci si sappia spingere al di là dell’atto concreto, in quello spazio senza nome dove l’umano è radicato. La misura di questa meraviglia letteraria è dunque l’assenza di ogni misura e Dumas, scrittore di incredibile coraggio, affronta disarmato l’indicibile che è ovunque, nel perché di ogni gesto che compiamo, che come un fiume scorre in tutte le lingue senza mai arrestarsi in nessuna.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Il 28 febbraio 1815 la vedetta di Notre-Dame-de-la-Garde segnalò il tre alberi Pharaon, proveniente da Smirne, Trieste e Napoli. Come al solito, subito un pilota si mosse dal porto, costeggiò il castello d’If, e andò ad abbordarlo tra capo Morgiou e l’isola di Riou.
SUPER
Grazie!