Recensione di “Antropologia come educazione” di Tim Ingold
Immaginate di programmare una passeggiata. Tutto ciò di cui avete bisogno è una buona capacità di organizzazione. Non dovete fare altro, in fondo, che decidere il tragitto, scegliere l’ora più adatta per affrontarlo, indossare l’equipaggiamento migliore possibile, partire e giungere a destinazione. Sani e salvi. E forse (e questo forse è di estrema importanza) identici a come eravate quando vi è venuto in mente di impegnarvi in un’escursione. Ma cosa avete fatto davvero?
Avete agito seguendo il principio di volizione (o di volontà): vi siete dati un obiettivo e l’avete raggiunto. Ora immaginate di trovarvi nel bel mezzo di una passeggiata (che magari avevate in animo di fare, ma adesso non è questo l’importante) e di prestare attenzione, più attenzione di quella che dedichereste a quel che avete intorno se pensaste soltanto ad arrivare alla meta che vi siete prefissi, a ciò che vi circonda; immaginate di accorgervi dell’ambiente in cui siete immersi, di aprirvi a esso, di sentirvi in esso; immaginate di guardare la via lungo la quale vi state muovendo come se non sapeste dove vi condurrà (perché in realtà non lo sapete davvero, dal momento che in qualsiasi istante potreste scartare, prendere una direzione nuova), immaginate di percepire un cambiamento al vostro interno, qualcosa che somiglia a un adattamento al mondo, che vi si rivela nel momento in cui accettate di osservarlo, di dargli ascolto e di farvi ascoltare. Cosa avete fatto? Avete agito in base al principio dell’abitudine, avete sospeso l’agire forte della volizione sostituendolo con qualcosa di “minore”, di più “debole”; attenzione però, perché l’abitudine di cui parliamo non è il “distratto fare di chi, conoscendo a memoria il proprio compito, può permettersi di svolgerlo senza quasi prestare attenzione” ma il suo esatto opposto, e cioè la sospensione di un agire intenzionale (cioè volto esclusivamente al raggiungimento del proprio scopo, e dunque indifferente a tutto il resto) che spalanca le porte alla scoperta di tutto ciò che non è l’obiettivo; in una parola al mondo. Abitudine è dunque dare attenzione, fare caso, cogliere, e nell’atto di cogliere aprirsi a ciò cui ci si avvicina per farci cogliere a nostra volta. L’abitudine è un’azione, ma a differenza dell’azione guidata dalla volontà ha una sua passività, è un’azione che contempla anche l’atto di subire, è qualcosa che trasforma proprio perché consente la nostra trasformazione. Nell’abitudine, nell’attenzione al mondo, noi agiamo mentre subiamo, ci modifichiamo. Ma che cos’è dunque questa azione prodotta dal principio dell’abitudine? Il grande antropologo britannico Tim Ingold lo spiega nel suo agile e bellissimo saggio intitolato Antropologia come educazione (in Italia pubblicato da La Linea nella traduzione di Lidia Donat): questo “agire nel subire” ci dice restituendoci la lezione, ancora oggi purtroppo ignorata da molti, di John Dewey è educazione. Educare, ex ducere, ci dice Ingold, non è un meccanico muoversi (intenzionale) da uno stato di immaturità e uno di maturità secondo un predeterminato percorso di acquisizione di informazioni, non è una strada già tracciata lungo la quale tutto ciò che accade è una trasmissione unidirezionale (da chi insegna a chi impara); è. al contrario, un condurre fuori, all’aperto, nel mondo, è un problematizzare e non un risolvere problemi, è un esporsi e non un ripararsi; educare, perciò, non è dare vita a una comunità cercando di fondarla sulla base di ciò che hanno in comune coloro che dovrebbero comporla, bensì un’accettazione piena, aperta, della diversità di ogni esistenza, sulla base di ciò, una messa in comune di questa diversità alla ricerca di una lingua che sappia esprimerla e al contempo comprendere quella altrui.
Educazione dunque è vivere, e proprio come la vita non ha altro scopo che la produzione di altra vita, così l’educazione non ha altro scopo che la produzione di ulteriore educazione. Si tratta di un viaggio che non ha fine; non di una passeggiata pianificata ma di un errare la cui meta, se di meta si può parlare, è l’atto stesso di errare, un’azione che è “agire e subire contemporaneamente” nel corso della quale noi ci apriamo al mondo nel mentre lui si apre a noi. Perché noi finalmente al mondo facciamo attenzione, nello stesso modo in cui facciamo attenzione a un bosco nel quale ci siamo infilati e persi; lo scopriamo, e ci facciamo scoprire, ne siamo trasformati; non siamo soltanto principio di azione, siamo nel mezzo delle cose, una cosa tra le altre, non le guardiamo dall’alto come se le conoscessimo già, non abbiamo nulla da trasmettergli e lui, il mondo, nulla ha da ricevere passivamente. E tra il mondo e la scuola, ci dice Ingold, non c’è differenza. Educare, educarsi, è corrispondere con le cose, non guardarle come si guarda un corpo morto su un tavolo autoptico; educare, educarsi, è comprendere che i veri problemi non hanno soluzione, che non ci può essere fine nel dialogo con il mondo, che la fragilità non è una condizione da migliorare ma un semplice essere nelle cose, tra le cose, è una disponibilità ad accettare la responsabilità e il compito di essere vivi: ed essere vivi significa abitare la differenza.
Antropologia come educazione è un saggio entusiasmante, una rivoluzione gentile che ci spinge a guardare al fondamentale mondo della scuola con occhi che pur senza essere nuovi (Ingold non si stanca di citare i fondamentali contributi di Dewey, e ancora quelli di Gregory Bateson, così come cita i lavori più recenti di Erin Manning, Gert Biesta, Jan Masschelein, caratterizzati dal suo medesimo approccio teorico) sono portatori di un grande cambiamento. Il suo libro, che si legge d’un fiato, ci offre una strada: a noi la responsabilità (response ability, ci dice l’autore, cioè l’abilità di risposta) di esplorarla trasformandola e lasciandoci trasformare.
Eccovi le parole di Ingold. Buona lettura.
[…] la mia tesi è che i principi alla base dell’antropologia siano gli stessi che sono alla base dell’educazione […]. Per quanto concerne l’educazione, bisogna rovesciare l’idea tradizionale di pedagogia come trasmissione intergenerazionale di un sapere autorizzato. Considero l’educazione non un “instillare” ma un “far uscire”, che apre strade di crescita intellettuale e di scoperta senza che vi siano esiti predefiniti o punti d’arrivo stabiliti. Si tratta di prestare attenzione alle cose, piuttosto che di acquisire la conoscenza che ci assolverebbe da tale necessità; si tratta di esporsi, piuttosto che di proteggersi. Il compito dell’educatore, dunque, non è spiegare quanto c’è da sapere a coloro che a priori si suppone siano ignoranti, ma fornire ispirazione, guida e sguardo critico nell’esemplare perseguimento della verità. Per quanto concerne l’antropologia, il mio approccio prende le distanze dalla consueta identificazione dell’antropologia con l’etnografia […]. Ciò che rende l’antropologia educativa invece che etnografica […] è il fatto che non studiamo tanto gli altri, quanto piuttosto studiamo con loro.