Recensione di “Fuori l’ultimo” di Mickey Spillane
Nel raccontare (peraltro da un punto di vista non certo originale, ma di questo non si può onestamente far soverchia colpa all’autore) la lotta tra bene e male, o se si vuole tra la giustizia e il suo opposto, o ancora tra la legge e il crimine, Mickey Spillane in Fuori l’ultimo
(in Italia pubblicato da Garzanti nella traduzione di Donatella Pini) sceglie la strada più facile, quella dell’assoluta assenza di sfumature. Il suo romanzo ha la struttura (assai povera, bisogna riconoscere) di un truce incontro clandestino di pugilato: all’angolo blu Gill Burke, sbirro infallibile (nonché, alla prova dei fatti, indistruttibile quanto e più di un supereroe), all’angolo rosso un intero impero malavitoso, il Sindacato (la maiuscola, si sa, è d’obbligo in casi come questi), null’altro a conti fatti che la cara vecchia mafia, che ha agganci ovunque, controlla qualsiasi attività, e non teme nemici di sorta. È così onnipotente, questo Sindacato, da essere riuscito a far espellere proprio Burke dalla polizia dopo essersi reso conto, a proprie spese, della sua pericolosità; l’uomo, infatti, ci dice Spillane in numerosi e frammentari flashback che lasciano irrisolte più questioni di quante riescano a spiegarne (ma c’è da immaginarsi che lo scrittore americano proprio questo volesse), era andato molto vicino a far crollare dalle fondamenta tutto il sistema, ma per fortuna dei cattivi era stato fermato appena in tempo. Quando un misterioso e inafferrabile nemico comincia a falcidiare gli scagnozzi di Cosa Nostra, arrivando a colpire anche alcuni uomini chiave dell’organizzazione, ecco che Burke torna in pista; la catena di delitti, infatti, oltre a essere un mistero per coloro che sono stati presi di mira, lo è anche per le forze dell’ordine, che si ritrovano alle prese con decine di cadaveri senza sapere come muoversi. In questa situazione, che a ogni istante rischia di sfuggire di mano e di sfociare in una sanguinosa e spietata guerra aperta tra malviventi che inevitabilmente finirebbe per coinvolgere molti innocenti, proprio coloro che non avevano esitato a liberarsi di Burke lo richiamo in fretta e furia. E l’uomo, che non ha mai cessato di essere un difensore della legge, accetta di rientrare in servizio; a condizione, è ovvio, che lo si lasci lavorare nell’unico modo che giudica efficace, cioè applicando gli stessi identici metodi dei suoi avversari.
Così il romanzo di Spillane fin dalle primissime pagine alterna violenza a violenza, sacrificando ogni complessità (di intreccio, di disegno psicologico dei personaggi, finanche un minimo di ricercatezza linguistica) al coinvolgimento – offerto ma non garantito – dell’azione pura, tanto più travolgente, sembra credere l’autore, quanto più compiuto da uomini in tutto e per tutto somiglianti a Burke. Fuori l’ultimo, infatti, non è che un fin troppo semplice gioco di specchi dove bontà e malvagità, più che essere facce di una stessa medaglia, sono una sola identica faccia che non contempla mai sorprese; dove il sorriso incornicia il volto del buono, il ghigno attraversa quello del cattivo; dove il buono è un amante tenero e deciso, il cattivo è un disgustoso pervertito; dove il buono uccide forse senza rimorso ma di certo non con gioia, il cattivo toglie la vita godendo di quel che fa, eccitandosi persino nel farlo. La differenza, dunque, è tutta qui: Burke, uguale e contrario a coloro contro cui si batte, ha la meglio sui suoi avversari perché così vuole la regola, perché il bene deve avere la meglio, perché la virtù deve trionfare sul vizio. Se un pregio va trovato in questo lavoro di Spillane forse è proprio nell’asciutta morale che lascia al lettore: il suo è il romanzo (per nulla credibile) di una strage, il resoconto di una mattanza, tuttavia la morte non è se non superficialmente una forza di giustizia distributiva: si uccide principalmente per vendetta e tuttavia così facendo nessun torto si ripara, tutto ciò che si riesce, forse, a soddisfare, è un egoistico bisogno, una brama, una volontà di sopraffazione. È un teatro di macerie quello che disegna Mickey Spillane, un luogo di desolazione che la sua scrittura purtroppo non illumina, riducendolo anzi ai minimi termini. La morte si fa banale in questo lavoro, perché banali sono le ragioni in forza delle quali la si dispensa. Peccato.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Erano esattamente le undici meno tre minuti quando arrivò all’edicola, prese una copia della prima edizione del nuovo giornale, l’ultimo numero di «TV Guide», indugiò ancora un istante a scorrere i titoli alla luce del chiosco prima di attraversare la strada.