Recensione di “Works” di Vitaliano Trevisan
Bisogno, che altro? Come la verità “nient’altro che la verità” della formula cui si sottomettono i testimoni dei processi visti migliaia, milioni di volte in televisione,
al bisogno non c’è da aggiungere altro. Il bisogno spiega ogni cosa. Racconta le nostre vite. O almeno la gran parte di esse. Quelle che dedichiamo al lavoro. Perché lavori? Per bisogno. Perché non posso farne a meno. Perché desidero comprarmi una bicicletta nuova, una bicicletta che sia mia e soltanto mia, per pagarmi l’affitto di casa, o se una casa è pensare troppo in grande, di una stanza, magari con bagno, per cenare fuori di tanto in tanto, o solo per comprarmi qualcosa da mangiare e dei vestiti. In una parola non tanto per vivere, che forse, da quando si viene al mondo fino a che lo si lascia, è aspirazione eccessiva, qualcosa che quasi richiama la tracotanza del teatro greco, quanto per sopravvivere. Non morire, ecco. Ammesso che continuare a respirare sia meglio, cosa tutta da dimostrare, ma il cui onere non è il caso di assumere ora. Il bisogno, dunque, si diceva. Sempre e solo il bisogno. E il lavoro come unico rimedio. Sempre precario e insufficiente peraltro. Persino dove abbonda. Persino dove c’è sempre. In tutte le stagioni, in ogni congiuntura, qualsiasi cosa accada, chiunque governi, dovunque si guardi. Persino nel ricco, ricchissimo (di opportunità, denaro e di tutto ciò che questa ammiratissima e invidiatissima coppia di sposi porta con sé) nordest d’Italia, il Veneto di Vitaliano Trevisan. Quel Veneto che il lavoro “lo ha nel sangue” e che lo scrittore di Sandrigo racconta nel corrosivo Works (Einaudi), oltre 600 pagine di storie di vita il cui denominatore comune è l’occupazione, l’avere un posto, una carriera, una professione, un posto nel mondo, o meglio un posto (preferibilmente fisso, a tempo indeterminato) nell’unico mondo che conti, quello, per l’appunto, “del lavoro”. Ed eccoci tornati alla bicicletta, alla voglia di averne una per sé, una da maschio, da uomo, uguale a quella degli amici, a quella di tutti gli altri, passo d’avvio di una discesa agli inferi dei “tempi moderni”, che sarebbe molto più corretto chiamare eterni, visto che il rapporto tra uomini e lavoro non è mai cambiato da che esistono i primi (e con loro il secondo). Quale migliore occasione della bicicletta così agognata, pensa infatti il padre dell’autore, poliziotto orgoglioso del suo mestiere, per far toccare con mano al ragazzo il significato delle fin troppo abusate formule “guadagnarsi la pagnotta”, “provvedere a se stessi”? Così, in un attimo (in Veneto, lo sanno anche i sassi, i muri, il lavoro è a ogni angolo di strada, basta volerlo fare, aver voglia), il giovane Trevisan si trova in una fabbrica, una delle moltissime che frequenterà in un quarto di secolo abbondante di esistenza trascorsa “da lavoratore dipendente” (alternando alle fabbriche, magazzini, negozi, studi – di geometra, di architettura, uno in particolare, nel centro di Treviso, cui si dedicano forse fin troppe pagine, a far fruttare un diploma di geometra preso controvoglia – uffici pubblici, cooperative sociali dedite a curiose forme di solidarietà e financo alberghi, in veste di portiere di notte).
Di ciascuno di questi staterelli che compongono quel grande continente chiamato “lavoro” Vitaliano Trevisan ci offre una dettagliata carta d’identità, un profilo storico-sociale tanto autentico quanto impietoso, disegnando quadri di ordinaria meschinità che ciascuno di noi ha conosciuto e conosce e che soprattutto ha interpretato e interpreta (nel ruolo di carnefice o di vittima), narrando episodi sempre diversi e allo stesso tempo sempre uguali, difformi l’uno dall’altro solo per ambientazione (e anche in questo caso mai in maniera significativa perché in fondo tutti i magazzini si somigliano, così come si somigliano tutte le fabbriche e gli uffici, perché sempre organizzati secondo le medesime logiche di potere e sfruttamento) e protagonisti (ma ancora una volta, non è forse, tolta qualche eccezione, l’uomo identico a se stesso a ogni latitudine? E non lo è ancora di più quando la latitudine non cambia, quando la geografia si riduce sempre alla stessa, per usare le parole dell’autore, “periferia diffusa”?) e competenze (e qui, forse, la sola boccata d’aria che il plumbeo narrare di Trevisan concede al lettore; la sincera ammirazione per il lavoro manuale, per il sapere concreto dell’artigiano, il solo ad avere con il suo fare, con le sue creazioni, almeno fino al momento in cui il sistema di produzione non gliele sottrae per poi obbligarlo a riprodurle in serie, una relazione diretta, non mediata, vera).
Memoir, sì; di Works si può dire che sia un memoir se si sente la necessità di classificarlo in un genere, ma a parere di chi scrive questo libro di tutto ha bisogno tranne di vedersi affibbiata un’etichetta, letteraria o meno che sia. Dalla porta che Vitaliano Trevisan ha aperto scrivendo questo libro tutti siamo passati (o in qualche modo passeremo); “il resto”, scrive l’autore, “è storia. Per me naturalmente” aggiunge. La nostra, per quanto diversa, non passa però troppo distante.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
A un certo punto non ne potei più.
VITALIANO TREVISAN: IL CALVARIO DI UN DISSIDENTE
(Gianni Sartori)
All’età di 61 anni è morto lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan. Attore, drammaturgo e uomo dai mille mestieri.
Perennemente afflitto dal pericoloso sogno dell’autenticità.
Di Vitaliano Trevisan, pur conoscendolo di fama (inevitabile a Vicenza), in passato non mi ero voluto interessare più di tanto. A parlarmene erano state persone – buone, brave, colte, di sinistra e beneducate – ma, dal mio punto di vista, comunque “borghesi”.
Anche se negli ultimo tempi si era trasferito in una contrada di Alta Collina (eccessivo definirla “Montagna”, stando ai miei parametri e conoscendo bene le Prealpi venete), scherzando ma non troppo, lo definivo un “Mauro Corona di pianura”. Quella pianura del Nord-est, inflazionata di capannoni, impestata lavoro nero e inquinamento che lui aveva raccontato, descritto e smascherato nei suoi imperdibili libri.
Ossia – credevo allora, sbagliando – un “personaggio” folcloristico, pittoresco e deviante quanto basta. Falsamente “autentico” e “genuino” come in genere piace appunto a certa borghesia progressista.
Solo pochi mesi fa, intervistando un vecchio compagno, impegnato da una vita non solamente nel “sociale”, ma nella lotta di classe (Luciano Orio), mi era stato citato in relazione agli incidenti (omicidi) sul lavoro. Nel suo “Works” (Einaudi editore) Trevisan denunciava apertamente quello che magari conoscono in molti, ma su cui in genere si preferisce stendere un velo pietoso. Ossia sul fatto che dai macchinari di lavorazione (laminatoi, presse, macchine utensili…) – per aumentarne la produzione ovviamente – spesso viene disinnescato il sistema di sicurezza. Con le ovvie conseguenze: arti amputati quando va bene, corpi maciullati nell’altro caso. In quantità – e qui ci sta – industriale.
Lessi il libro e verificai quanto mi aveva segnalato Luciano.
Ma scoprii anche altro.
Intanto il fatto che – come il sottoscritto anche se in anni diversi – Vitaliano Trevisan aveva lavorato come facchino alla Domenichelli di viale Torino nei turni di notte.
Anzi, avevo anche colto una variante. Da parte sua non considerava quel lavoro, (notturno e in nero, tanto per la cronaca) particolarmente gravoso e parlava di turni di otto ore.
Personalmente, confrontandolo con altre mie esperienze simili (nelle celle frigorifere della Ederle, alla Veneta- Piombo, i traslochi…), lo ricordavo comunque abbastanza pesante. Anche perché all’epoca di giorno cercavo di frequentare l’università, al punto che ricordo di essermi appisolato più di qualche volta in piedi, appoggiato al carrello nella ripetitiva spola tra i camion e il deposito.
Non solo. Mi sembra proprio di ricordare, nella prima metà degli anni settanta i turni erano di dieci ore, non di otto. Con una “pausa- pranzo” (un panino portato da casa) di venti minuti, mezz’ora.
E’ possibile naturalmente che in seguito (seconda metà degli anni settanta, quando toccò a Trevisan scaricare e stivare) le cose fossero cambiate. Come avvenne – questo lo avevo verificato di persona – nel settore traslochi (grazie anche all’impiego di elevatori che permettevano, per esempio, di non dover portare sulle spalle, da soli, pesanti frigoriferi per diversi piani di scale).
E poi in “Works” raccontava a sua esperienza in un territorio che conosco bene, il Basso Vicentino.
Quel pezzetto di Riviera Berica sdraiato ai piedi dei Colli Berici che operatori turistici e amministrazioni comunali si ostinano a descrivere come bucolico, con paesaggi (ormai è un classico, non si nega a nessuno) “mozzafiato”. Nonostante la pianura sia quasi completamente cementificata (oltre che inquinata, vedi la A31) e sui Colli proliferi di giorno in giorno la metastasi delle ville e villette di borghesi grandi, medi e piccoli che “amano la Natura” (senza peraltro esserne corrisposti). Costruzioni talvolta semiabusive (tipo sedicenti ”depositi attrezzi” provvisti di colonnato esterno – “pompeiane” – e piscina), case di 2-3 cento metri quadri dove prima c’era soltanto “el staloto del mas-cio”. A spese del paesaggio e degli ecosistemi.
Ma comunque qualcosa c’era – e c’è – a mozzare letteralmente il fiato: gli innumerevoli capannoni dove languiscono segregati a migliaia i polli da allevamento. E la puzza – come scriveva chiaramente Vitaliano – si sente, eccome. Anche da lontano.
Pur senza volersi soffermare sulla sacrosanta compassione per quelle povere creature imprigionate (rileggersi in proposito quanto scriveva Eugenio Turri sugli analoghi allevamenti nei Lessini), pensiamo soltanto a cosa sta accadendo proprio ora in Veneto con l’epidemia di aviaria e lo sterminio di milioni di volatili.
Ma quello che più mi rode è il modo in cui sembra se ne sia andato. Dopo un ricovero psichiatrico formalmente “volontario”, ma in realtà sotto il ricatto di un TSO.
Ora, mi chiedo, è mai possibile che una persona con il suo livello culturale, con un così alto grado di consapevolezza (esistenziale, sociale, politica…) derivata dall’esperienza vissuta, non certo dagli studi accademici (anche se la sua preparazione letteraria era ottimale) sia stato trattato in tal modo?
Non so se – come aveva azzardato qualche vicentino – Trevisan fosse veramente da considerarsi il maggiore tra gli scrittori attuali della Penisola. Ma sicuramente è lecito interrogarsi in proposito. E uno così, su cui ora tutti spandono lacrime e tessono lodi, è stato rinchiuso come un pericoloso demente?
Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte disperata, in molti lo hanno ricordato con commozione.
Alimentando tuttavia l’idea che comunque il Trevisan era (a scelta): depresso, fuori di testa, predisposto al suicidio….
Invece di esprimere rispetto non solo per lo scrittore, ma anche per un uomo che ha saputo esplorare il lato oscuro (o forse meglio: non del tutto colonizzato) dell’animo umano. Con estrema lucidità, andando ben oltre la propria sofferenza personale e le proprie (indiscutibili) contraddizioni. Arrivando a un alto grado di consapevolezza dei rapporti umani e – più ancora direi – dei rapporti sociali in una società capitalista (lui che tra l’altro, se non forse negli ultimi tempi, non si considerava di sinistra, “non di questa sinistra almeno”).
Un esempio, un modello per come si possa affrontare la tragicità della vita senza soccombere, rielaborandola.
A meno che – ovviamente – non intervenga qualche fattore esterno (in stile santa inquisizione) a disciplinare, omologare, addomesticare, “guarire”…
Chissà come è andata veramente. Ma rimane il dubbio che senza l’umiliazione di quel ricovero formalmente volontario, ma in realtà coatto, forse – dico forse – ne sarebbe uscito ancora per conto suo, magari con un altro libro o andando in giro per i boschi…
In questo momento mi vengono in mente altre persone (Majakóvskij Pavese, Debord, André Gorz, Paolo Finzi…), con storie e motivazioni diverse, ma cheavevano compiuto la medesima scelta estrema del Trevisan. Travolte forse dal disgusto per la mediocrità, la miseria spirituale di un mondo che incatena i dissidenti e imbavaglia i poeti (talvolta non solo metaforicamente) imbalsamandoli poi da morti.
Così come mi vengono in mente “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, Walter Benjamin (letteralmente braccato) e la tragedia (l’assassinio si può dire?) di Mastrogiovanni.
In fondo anche Vitaliano Trevisan era un soggetto scomodo, indigesto, non compatibile. Magari letto, apprezzato, recensito e premiato…ma comunque alla fine segregato e umiliato.
Niente di strano se uno come lui (un intellettuale, ma anche “uomo d’azione”) avesse deciso di mandare il mondo, questo mondo, a fare in culo.
Gianni Sartori
SEMPRE IN TEMA DI INGIUSTIZIE E COLONIZZAZIONI DELL’ESISTENTE, QUASI UNA RECENSIONE
Gianni Sartori
Confesso in anticipo. Non ho ancora letto “Landness. Una storia geoanarchica”. Solo una recensione apparsa su “la lettura”.
Quindi questa non è altro che la “recensione di una recensione”. Quando – e se – avrò analizzato anche il testo vero e proprio ne riparleremo. Eventualmente.
Ma mi basta e avanza per qualche osservazione. Intanto sul titolo, forse pretenzioso e fondato, credo, solo sul fatto che tratta di due insigni geografi anarchici, Eliseo Reclus e Petr Kropotkin.
Quest’ultimo arbitrariamente definito “inviso a zar e sovietici” (qui quasi equiparati, ma si può?). Caso mai si dovrebbe parlare di “bolscevichi” in quanto nessuno nella Russia rivoluzionaria era più “sovietico” (nel senso originario di consiliare) degli anarchici. Basta pensare a Kronstadt e alla machnovščina.
Senza dimenticare che Lenin nutriva un profondo rispetto per l’illustre libertario e lo incontrò in varie occasioni. Raccogliendo in parte le sue richieste di scarcerazione per alcuni anarchici arrestati (non tutti purtroppo) e consentendo poi a quelli rinchiusi di partecipare ai funerali del Kropotkin stesso. Ne parlava Victor Serge (l’unico bolscevico a cui gli anarchici consentirono di partecipare) ricordando come, sempre purtroppo, molti dopo la cerimonia funebre dovessero rientrare in galera.
Ma, appunto, si trattava di una responsabilità bolscevica, non dei sacrosanti principi sovietici (ripeto, nel senso di consiliari).
E credo esista ancora un museo dedicato a Kropotkin e risalente appunto agli anni venti.
Fosse stato solo per questo non avrei perso tempo a scriverne. Ma nella recensione di Danilo Zagaria c’è di più (e a mio avviso di peggio).
Parte (e conclude) rievocando la discutibile impresa del colonialista James Cook che grazie al contributo di un nativo (forse suo malgrado e con il senno di poi definibile “collaborazionista”) arrivò a “scoprire” Australia e Nuova Zelanda. Tupaia, questo il nome dell’ingenuo indigeno, era presumibilmente uno sciamano che per l’esploratore realizzò una mappa dettagliata (traduzione grafica della sua “mappa mentale”) dei percorsi tradizionalmente utilizzati dagli abitanti dell’Oceania. Con l’indicazione della distanza tra la miriade di isole e isolette indicata non in miglia, ma in giorni. Quelli necessari (la distanza temporale) per la navigazione e tramandati di generazione in generazione attraverso i canti religiosi. Di tutto questo Cook seppe appropriarsene aprendo la strada alla colonizzazione europea e all’oppressione dei nativi. Talvolta al vero e proprio genocidio come nel caso degli aborigeni australiani. Un’impresa assai discutibile.
Tracciarne l’elogio (cito testuale: “Resta da capire se sapremo fare come Cook “: madonna, speriamo di no!) mi sembra ben poco “anarchico”.
Almeno per come la vedo io.
Gianni Sartori
Grazie del contributo