Recensione di “L’arte di narrare” di James Salter
“Un pomeriggio mi trovato a Pensacola – si era dopo la guerra – e per strada mi fermai a guardare la vetrina di una libreria. C’era un libro con una sovraccoperta vistosa intitolato La città e la metropoli. Notai subito il nome dell’autore: John Kerouac. Conoscevo un Jack Kerouac che era stato mio compagno alle scuole superiori e che all’epoca scriveva racconti.
Possibile che fosse lui? Entrai e presi in mano il libro. Sul retro c’era la foto dell’autore. Lo riconobbi immediatamente. Rimasi sbalordito. A scuola era un anno avanti a me, come tutti i suoi amici. Era robusto e atletico, correva veloce. Giocava a football. Avevo sentito dire che era andato alla Columbia per poter giocare. Lessi un paio di pagine, comprai il libro e lo portai a casa. ‘Questo lo ha scritto Jack Kerouac’ dissi, mostrandolo a mia moglie. Non sapeva chi fosse… lei e io ci eravamo conosciuti molto tempo dopo la scuola. Le spiegai chi era, ma non spiegai come mi fossi sentito io vedendo il libro… ero invidioso, stavo male dall’invidia, mi sentivo sconfitto. Mia moglie non apprezzava il mio interesse. Non era contraria, diciamo che la cosa la lasciava indifferente. Io invece, percorrendo in uniforme una strada di Pensacola, all’improvviso avevo visto l’immagine di qualcosa di diverso dalla vita che stavo vivendo. La città e la metropoli erano Lowell, nel Massachusetts – la città natale di Kerouac – e New York, dove aveva conosciuto le persone più importanti della sua vita: William Burroughs, Allen Ginsberg, Neal Cassidy; e alcune delle sue mogli. Nel libro è evidente l’influenza di Thomas Wolfe. Avevo letto Thomas Wolfe […]. Le lunghe e vivaci descrizioni delle banalità quotidiane e il suo ego implacabile, la sua ricerca di senso e dell’amore, che a volte sfociavano nella satira […]. Kerouac prese da lui questa esuberanza, capace di scatenare l’elegia come il jazz”. Così James Salter, ex pilota dell’aviazione militare statunitense innamorato della letteratura e per amore diventato scrittore, prova a riflettere sul senso del raccontare nel suo saggio (tanto breve quanto profondo) intitolato L’arte di narrare, in Italia pubblicato da Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli. Il suo procedere somiglia al cauto avanzare dell’esploratore in un territorio al tempo stesso noto (studiato su quelle sempre cangianti carte geografiche che sono i romanzi) e sconosciuto (perché ogni cosa scritta inevitabilmente riverbera in modo differente nelle menti e nei cuori di coloro che leggono, che si espongono alla lettura); Salter riconosce immediatamente di non avere punti di riferimento, o al massimo di averne pochissimi; egli afferma di non sapere da dove venga l’urgenza di scrivere, considera la genialità come qualcosa di indefinibile e la scrittura il solo mestiere (ammesso che sia corretto considerarla un mestiere) non insegnabile. Cosa resta dunque? Il solo gusto personale? Le insuperabili colonne d’Ercole dell’opinione del singolo, insindacabile, se non in sé, a causa dell’eccessiva fluidità della letteratura? Se la scrittura è un fiume, o meglio la sempre diversa corrente di quel fiume, in quale acqua si bagna chi legge?
A queste domande, che il libro di James Salter pone ma alle quali non fornisce risposta, l’autore replica guardando alla storia della letteratura, alle parole considerate come “cose in sé”, non alla stregua di universali ma in qualche misura come essenze, oggetti di conoscenza che gli scrittori (e i più grandi fra loro in modo eminente) manipolano senza sosta cercando di volta in volta di trarre alla luce uno dei loro infiniti tesori: la nitidezza, la potenza espressiva, la precisione, la duttilità, la dirompente violenza, la miracolosa predisposizione a mutare in altro da quel che sono senza cessare di essere se stesse. Ecco allora emergere dalle sue pagine Balzac, che per primo comprese lo splendore e la miseria dei dettagli della vita quotidiana, “parte essenziale della verità, della realtà”, ecco la tragica parabola esistenziale di Isaac Babel’, giustiziato nel 1940 dall’NKVD, i cui racconti, “cesellati fino a raggiungere un’intensità che lascia senza fiato”, riflettono la sua convinzione che non esista “ferro capace di trafiggere il cuore di un uomo con la stessa forza di un punto fermo messo al posto giusto”, ecco Flaubert, a tal punto ossessionato dalla perfezione da soppesare ogni frase più e più volte, infinite volte: “Sceglieva, scartava, risceglieva ogni parola”, ecco Céline, per il quale non contava che lo stile e le idee erano nulla, “se volevi delle idee, le enciclopedie ne erano piene” – eppure nessuno ha insegnato più sull’uomo di questo autore immenso e maledetto che sembrava guardare soltanto alla forma, alla bellezza da contemplare e dimenticare l’istante successivo.
Non c’è fine nel viaggio intrapreso da Salter in questo suo saggio né egli la cerca o la promette, perché non è giungere da qualche parte lo scopo della lettura (non ci si immerge tra le pagine di un libro, o di mille, o di centomila libri per trovare la parole fine) bensì, come osserva Joan Didion, cercare una consonanza di voci con le frasi nelle quali inciampiamo, frasi che ‘impongono un certo modo di guardare il mondo, un modo di guardarlo senza entrarvi, un modo di attraversarlo senza farne parte, una specie di individualismo romantico chiaramente adattato al proprio tempo e luogo”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Può capitare che una persona svenga alla vista di qualcosa, oppure sentendo una notizia, o la voce di una persona creduta morta da tempo; a nessuno capita però di svenire leggendo un libro. Il che non significa che i libri siano privi di potere; diciamo che hanno un tipo diverso di potere.