Recensione di “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievic
Ieri: “Prima hanno arrestato mia moglie. Era uscita per andare a teatro e non è mai tornata […]. Di lì a tre giorni sono venuti a prendere me…
Come prima cosa hanno annusato nella stufa per controllare se ci fosse odore di fumo e avessi bruciato delle carte. Erano in tre. Uno di loro si guardava in giro e sceglieva qualche oggetto per sé: ‘Di questo non avrà più bisogno’. E stacca l’orologio a muro… Ci sono rimasto di sasso… non me l’aspettavo… E al tempo stesso c’era in quella ruberia qualcosa di umano, che autorizzava qualche speranza. Certe bassezze… Voleva dire che perlomeno appartenevano alla razza umana […]. Tornando alla perquisizione, dalla mia ricerca affannosa su quale potesse essere il motivo di quello che mi stava succedendo, ero riuscito a individuare una sola possibilità… All’ultima riunione cittadina del partito, quando avevamo scandito le felicitazioni al compagno Stalin, tutta la sala si era alzata in piedi. C’era stata una buriana di ovazioni. ‘Gloria al compagno Stalin, organizzatore e ispiratore delle nostre vittorie! Gloria a Stalin! Gloria alla nostra Guida!’. La cosa è andata avanti quindici minuti… mezz’ora…Tutti si guardavano, ma nessuno osava sedersi per primo. Tutti in piedi. E io, non so perché, mi sono seduto. Senza pensarci. Subito mi si sono avvicinati due tizi in abiti civili: ‘Compagno, perché se ne sta seduto?’. Sono saltato in piedi come una molla. Come se mi avessero scottato. Durante la pausa dei lavori continuavo a guardarmi attorno. Mi aspettavo di essere arrestato da un momento all’altro […]. M’han tenuto un mese in cella d’isolamento, una specie di bara di pietra, più larga dalla parte della testa e che si restringeva verso il basso […]. Mi hanno interrogato solo dopo due settimane […]. Negavo tutto. E loro mi pestavano, Quand’ero a terra mi calpestavano con gli stivali. Ed eravamo tutti dalla stessa parte. Io avevo la tessera del partito e anche loro l’avevano. E anche mia moglie… ho lasciato la cella d’isolamento per una cella comune dove eravamo in cinquanta. Ci portavano a fare i bisogni due volte al giorno. E il resto del tempo? Come spiegarlo a una signora? Vicino all’ingresso c’era un’enorme tinozza… Se l’immagina come ci si sente a doversi accucciare e cacare davanti a tutti? Ci davano da mangiare aringhe e non ci davano l’acqua da bere […] Uno studente era finito in galera per una barzelletta: ‘Sulla parete è appeso un ritratto di Stalin. Un relatore legge una dissertazione su Stalin, un coro canta una canzone su Stalin, un attore declama una poesia su Stalin. Dove ci troviamo? A una serata commemorativa dedicata al centenario della morte di Puskin’ […]. Mi picchiavano sulla pancia con un sacchetto pieno di sabbia. Spargevo in giro quello che avevo nelle viscere, come un lombrico. Mi appendevano a un gancio, roba da medioevo! […]. In prigione ho incontrato un mio vecchio compagno […]. Gli hanno chiuso la mano dentro una porta, spezzandogli tutte le dita, come matite. L’hanno tenuto per giorni interi con una maschera antigas infilata sulla faccia. Mi riesce difficile raccontare cose del genere…“.
Oggi: “[Minsk]. Ci siamo andati allegramente, ci siamo andati scherzando. Molti ridevano, cantavano canzoni. Eravamo tutti molto fieri l’uno dell’altro, l’umore era decisamente alto […]. Un cellulare della milizia… un veicolo mitico. L’ho visto lì per la prima volta […]. ‘Faccia nella neve, puttana! Un movimento e sei morta!’. Sono sdraiata sull’asfalto… Non sono l’unica a essere sdraiata qui, ci sono tutti i nostri… ho la testa vuota… nessun pensiero. Unica sensazione reale: il freddo. A calci e manganellate ci fanno alzare e ci spingono nel cellulare. I più colpiti sono i ragazzi, mirano al perineo […]. Ci hanno spinti in una baracca. Siamo stati in piedi tutta la notte con la faccia la muro. Al mattino: ‘In ginocchio!’. Ci siamo inginocchiati. ‘In piedi! Mani in alto!’. Prima le mani sopra la testa, poi cento flessioni sulle ginocchia. Poi in piedi su una gamba sola… Perché l’hanno fatto? A che scopo? Gliel’abbiamo chiesto, ma non ci hanno risposto. Li hanno autorizzati… Si sono sentiti potenti… Qualche ragazza aveva la nausea, qualcuna è svenuta. La prima volta che mi hanno interrogata ho riso in faccia al giudice istruttore, finché non mi ha detto: ‘Adesso, bambina, ti scopo bene in tutti i buchi e poi ti metto in una cella di delinquenti comuni’ […]. Ho solo vent’anni. Come vivrò adesso? Ho l’impressione che anche quando sarò fuori, avrò paura di alzare gli occhi…“.
Utopia. Una parola, come moltissime altre, che dobbiamo alla lingua greca. Letteralmente significa in nessun luogo; per esteso designa un ideale tanto nobile quanto irrealizzabile. Un sogno è un’utopia, anche un desiderio può esserlo, perfino un’aspirazione, se non tiene conto del dato di realtà. Ma queste sono utopie a loro modo innocue, protette dalla loro intrinseca impossibilità. Un’utopia che ha nessuna possibilità di farsi realtà affascina molti, conquista cuori e anime ma non fa paura a nessuno. A spaventare è altro: un’utopia che potrebbe farsi carne, che potrebbe concretizzarsi; a patto che coloro che la abbracciano siano disposti a pagare, fino in fondo, il prezzo della sua messa in opera. Di un’utopia di questa natura, l’utopia del socialismo e dell’uomo nuovo di cui l’URSS è stata per decenni esaltante e tragico laboratorio, racconta Svetlana Alksievic, premio Nobel per la Letteratura nel 2015, nel bellissimo, straziante Tempo di seconda mano – La vita in Russia dopo il crollo del Comunismo (in Italia pubblicato da Bompiani nella traduzione di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti), dando voce a quel che rimane di un impero all’indomani della sua dissoluzione. Dalle oltre 700 pagine del libro emerge il dolente coro di un’umanità dispersa, derubata di senso; da coloro che hanno vissuto gran parte della propria vita sotto il socialismo sopportandone le terrificanti violenze e nello stesso tempo amandone senza riserve la grandezza dello scopo (la creazione di un uomo finalmente degno di dirsi tale), e che la ‘rivoluzione capitalista’ dei primi anni Novanta ha colto completamente impreparati, trasformandoli in reietti, a chi, giovane negli “anni nuovi”, guarda al passato con indifferenza quando non con scherno, giudicando qualsiasi sacrificio non finalizzato al successo personale null’altro che una sciocca perdita di tempo. Testimone silenziosa e attenta, Svetlana Alksievic viaggia tra le macerie immateriali ma disperatamente autentiche di un Paese senza identità, dove persino la povertà ha un sapore diverso se considerata con gli occhi del passato o con quelli del presente. Al tempo dell’URSS l’indigenza era parte dell’immenso edificio comunista, era anzi una delle sue architravi, era dunque un destino comune; non per questo era amata, ma neppure la si odiava; in questo senso non era diversa dalle rigide temperature siberiane, dagli inverni quasi insostenibili, qualcosa da cui ci si riparava come si poteva; ai giorni nostri la povertà è l’opposto della ricchezza, è ciò che divide in due un popolo che per quanto imperfettamente ha saputo vivere unito (o almeno ha provato a farlo) per una lunga stagione. Ai giorni nostri chi è povero è qualcuno che ha fallito. Qualcuno che non ha colto le opportunità quando si sono presentate. Qualcuno condannato. Condannato per prima cosa alla solitudine. Nella realtà slabbrata di una Russia rimpicciolita e misera, che non ricorda più gli anni in cui insegnava la fratellanza a popoli diversi (uzbeki, tagiki, georgiani, ceceni, estoni… tutti russi, tutti amici) prosperano le mafie, si moltiplicano le guerre, l’amore muta in odio, i matrimoni “misti” sono considerati tradimenti, e può accadere che una donna armena, colpevole di essersi innamorata di un uomo azero e di averlo sposato, venga sgozzata da uno dei suoi fratelli, punita, lei assieme ai suoi figli, nelle cui vene scorre sangue bastardo, “non puro”.
Cosa è meglio, dunque, ammesso che sia possibile scegliere tra due alternative che alternative non sono: il terrore staliniano, con milioni di persone deportate e uccise nei modi più orribili (“una maniglia infilata di forza su per il culo e l’uomo non c’è più!” dichiara fiero un ex commissario politico, un torturatore del regime che ha costruito il socialismo rispettando diligentemente le sue quote giornaliere di nemici del popolo da eliminare) o la ferocia bestiale delle guerre civili, dell’indipendenza a ogni costo, della difesa “razza eletta”? ([Mosca, oggi. A parlare è un immigrato clandestino tagiko]: “Su un treno suburbano mi hanno avvicinato in tre… Tornavo a casa dal lavoro. ‘Che fai qui?’. ‘Vado a casa’. ‘Dov’è casa tua? Chi ti ha invitato a venire qui?’. E si sono messi a picchiarmi. Mi picchiavano e intanto gridavano: ‘La Russia ai russi! Gloria alla Russia!’ […]. Mi hanno rotto i denti… fracassato una costola… Il vagone era pieno di gente, ma solo una ragazza è intervenuta in mia difesa: ‘Lasciatelo stare! Non vi ha fatto niente’. ‘E tu, cosa vuoi? Pestiamo un culo nero’). Il socialismo. L’idea. L’utopia. “L’idea era magnifica! Quanto ad applicarla all’uomo… L’uomo non è cambiato dai tempi dell’antica Roma….
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Ci stiamo congedando dall’epoca sovietica. Che è come dire: dalla nostra stessa vita.