Recensione di “Vita di un uomo” di Louisa Hall
Un fisico, uno scienziato, il responsabile di un progetto rivoluzionario e terribile, l’organizzatore di uno sterminio e insieme a tutto questo
un uomo che come qualsiasi altro si dibatte tra contraddizioni laceranti e insanabili, che con tutto se stesso crede in qualcosa pur non sapendo bene cosa sia questo qualcosa, un multiforme, cangiante grumo di significato che un giorno ha nome amore, un altro amicizia, un altro ancora fedeltà e poi rimorso. Rimorso per ciò che si è stati capaci di fare e in pari tempo orgoglio per la soglia che si è avuto il coraggio di superare; perché la scienza, il bene più grande a disposizione degli uomini, il prometeico dono del fuoco, non ammette né dubbi né tentennamenti; la scienza è dominio assoluto sulle forze della natura, è la legittimazione della parola di Dio, che ha posto la Terra ai piedi dell’uomo affinché lui la governasse. Ma può esistere un punto di equilibrio tra rimorso e orgoglio? E può un uomo trovarlo e in questo modo guadagnare almeno qualche istante di pace? A porre queste domande – per le quali una risposta potrebbe non esserci – è Louisa Hall nel suo bellissimo e travolgente Vita di un uomo (in Italia pubblicato da Mondadori nella traduzione di Monica Pareschi), mosaico biografico dedicato a Julius Robert Oppenheimer, il geniale fisico che, a capo del Progetto Manhattan, portò alla realizzazione e al lancio degli ordigni atomici che l’esercito americano sganciò sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki spezzando definitivamente le velleità di resistenza dell’impero e segnando l’epilogo del secondo conflitto mondiale. Dal 1943 al 1966, da San Francisco a Princeton, le voci (immaginarie) che si susseguono nel romanzo sono tessere di un puzzle che perfettamente si calano nella complessità del reale; nella felice scelta polifonica dell’autrice a emergere è un ritratto certamente composito eppure non disarmonico, non disorganizzato. Saggiamente Louisa Hall evita alle sue pagine la resa a qualsivoglia verità e lascia che l’anima del suo protagonista si intraveda soltanto nell’irriducibile parzialità dei singoli contributi (e poco o nulla conta che si tratti di opinioni, giudizi, assoluzioni o condanne). In questo modo Oppenheimer muta di continuo (o per dir con maggior esattezza particolari frammenti di lui vengono alla luce mentre altri rimangono in ombra) al mutare della visuale che lo inquadra, al punto che la sua figura ricorda quella dei bozzetti preparatori di un’opera d’arte, nei quali il soggetto è ogni volta considerato e ritratto da un differente punto di vista.
E dunque Julius Robert Oppenheimer è l’uomo cui un intero Paese si affida affinché la propria supremazia militare divenga incontrovertibile realtà per qualsiasi altra potenza e colui di cui non ci si può fidare a causa delle sue simpatie comuniste e che per questo va tenuto ininterrottamente sotto sorveglianza – “Al suo posto, un altro sarebbe stato terrorizzato. Aveva deviato dall’itinerario impostogli dal generale Groves, essendo in possesso di informazioni top secret sui test nucleari. Avevamo prove del fatto che ci fosse una talpa sulla mesa, questo lo sapeva. Sapeva anche che, visti i suoi trascorsi negli ambienti comunisti, nonostante avesse il pieno appoggio del generale Groves non era certo al di sopra di ogni sospetto” -; è colui che non si fa scrupolo di tradire i propri compagni di strada quando la pressione sale eccessivamente e tutto quel che si desidera è essere dimenticati, così da poter avere tempo e modo di meditare sulle proprie scelte, per pentirsene o forse per difenderle contro tutto e tutti – “[…] McCarthy aveva raggiunto il culmine del suo potere […] e il fascicolo di Robert […] era peggiore di quelli della maggior parte dei funzionari licenziati e persino finiti in carcere. A quel punto era davvero solo. I suoi amici di Washington lo trattavano come un appestato, e quelli di Berkeley gli si erano rivoltati contro da tempo. Avevano cominciato quando la sua testimonianza contro Bernard Peters era trapelata sui giornali. E gli avevano dato ancora più addosso quando non aveva difeso Joe Weinberg, né si era appellato al quinto emendamento come invece aveva fatto David Bohm – che per quella ragione era finito sulla lista nera e di lì in prigione” -; è il conferenziere i cui interventi, pacati e profondi, non si possono dimenticare – “Il suo discorso si incentrò sul rapporto fra potere e privilegio. Disse – me lo ricordo bene – che la responsabilità dipende soltanto dal potere” -; ed è un vecchio fragile e, come tanti, come tutti, uno sconfitto, fatto a pezzi dalla propria vita – “Vidi Oppenheimer per l’ultima volta del dicembre del 1966. A quel tempo stava morendo. L’inchiesta era stata un trauma per lui, Anche il clamore della sua riabilitazione simbolica, avvenuta poco prima che si ammalasse, l’aveva provato. Quando lo vidi a Princeton aveva solo sessantadue anni, ma era malato di un tumore inoperabile”-; ma soprattutto è il suo sguardo enigmatico fisso sul deserto negli attimi che precedono il test che dirà l’ultima parola sulla bomba e sulla sua inimmaginabile potenza distruttiva.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Mi sono limitato a seguirlo per due giorni, nel giugno del 1943, perciò non posso dire di averlo conosciuto. Non in senso stretto, almeno.