Recensione di “Entropia” di Thomas Pynchon
“Per quanto riesco a ricordare, questi racconti furono scritti tra il 1958 e il 1964. I primi quattro
quando ero all’università – il quinto, L’integrazione segreta (1964), è ormai più il lavoro di un artigiano che non quello di un apprendista. Forse saprete che colpo sia per l’amor proprio leggere cose vecchie di vent’anni, anche solo assegni annullati. La mia prima reazione, quando ho riletto questi racconti, è stata oh mio Dio, accompagnata da sintomi fisici su cui è meglio non soffermarsi. Poi ho pensato di riscrivere tutto dall’inizio alla fine. Questi due impulsi hanno lasciato posto a un certo stato di tranquillità, di quelli che colgono le persone di mezza età, e ormai posso far finta di avere le idee chiare su che tipo di scrittore fossi allora. Insomma, non posso mica cancellare quel tale dalla mia esistenza. D’altra parte, se grazie a qualche tecnologia rivoluzionaria dovessi incontrarlo oggi, credete che mi sentirei a mio agio a prestargli dei soldi, o anche solo a cercare un bar per bere una birra con lui e parlare dei vecchi tempi?”. Nell’introduzione ai racconti giovanili contenuti in Entropia (In Italia pubblicata da e/o nella traduzione di Roberto Cagliero, autore anche di una interessante postfazione) Thomas Pynchon, fingendo di ironizzare (il che significa scherzando davvero relativamente a se stesso ma solo per riflettere su come si scrive, sul perché lo si fa in un determinato modo e su come sia praticamente impossibile cadere in certe trappole o commettere determinati errori) sui suoi primi lavori di scrittore, più che offrire una chiave di lettura, o se si vuole una ragione in grado di spiegare i punti deboli (numerosi, a quanto dichiara) e i rari punti di forza delle storie cui ha dato vita, analizza il tempo letterario in cui è cresciuto, e di conseguenza ciò che questo tempo è stato in grado di produrre, cosa ha cercato di dire e come lo ha fatto. Ecco dunque sorgere, da ciò che a prima vista non sembra altro che una garbata e divertente richiesta di indulgenza per un’avventatezza nei fatti impossibile da evitare (quella di avere vent’anni o poco più, unita naturalmente al saper scrivere, cioè all’essere in grado di farlo, responsabilità che possiamo attribuire all’istruzione obbligatoria), una teoria letteraria che ha il gusto inebriante di un viaggio interminabile nei territori esplorati, esplorabili eppure sempre vergini, sempre da conquistare, del linguaggio. Così, il primo racconto di questa raccolta, Pioggerella, affronta, calandolo in una buffa ambientazione militare dove nulla è come ci si aspetterebbe, proprio il tema della lingua: “Kerouac, gli scrittore beat, lo stile di Saul Bellow in Le avventure di Augie March, voci emergenti come quelle di Herbert Gold e Philip Roth ci stimolavano a capire che in narrativa potevano convivere almeno due tipi diversi di inglese. Potevano eccome!”, ma mentre in queste pagine a essere al centro dell’attenzione è lo stile, in quelle del racconto successivo, Terre basse, il fuoco si sposta su quel che viene detto e su cosa sostenga ciò che lo scrittore (che si presume sappia le cose che dice, conosca le sue affermazioni, ne sia l’artefice; presunzione spesso erronea) dichiara. “Il lettore contemporaneo si troverà quantomeno spiazzato, per tutta la durata del racconto, di fronte a una quantità inaccettabile di discorsi razzisti, maschilisti, protofascisti. Vorrei poter dire che quella voce appartiene soltanto a Pig Bodine, e invece devo confessare che allora era anche la mia. Se non altro, si può dire che fosse abbastanza autentica per la sua epoca. James Bond, uno dei modelli di John Kennedy, stava per farsi un nome pigliando a calci la gente del terzo mondo, in un’ennesima estensione di quelle storie d’avventura per ragazzi che molti di noi hanno letto quand’erano piccoli”.
Nella raffinata perfezione della prosa, che sembra voltare le spalle alla rude precisione del calcolo matematico ma che pure si muove nel pieno rispetto della consequenzialità logico-formale del sillogismo, l’autore giunge al racconto che dà il titolo all’opera, Entropia, soffermandosi sul dato conoscitivo, sull’informazione: “Siccome questo racconto è stato inserito due o tre volte in varie antologie, la gente crede che io conosca l’entropia molto più di quanto ne sappia in realtà […]. Dunque, secondo il dizionario Oxford il termine è stato coniato nel 1865 da Rudolf Clausius, sul modello del termine ‘energia’, che secondo lui designava in greco il ‘contenuto di lavoro’. L’entropia, o ‘contenuto di trasformazione’, venne introdotta per esaminare i cambiamenti a cui è sottoposta una macchina termica durante un ciclo normale, il cui calore si trasforma in lavoro. Se Clausius avesse optato per il tedesco, scegliendo Verwandlungsinhalt, forse il concetto avrebbe avuto un impatto del tutto diverso […]. Dopo aver scritto questo racconto, ho continuato a cercare di capire l’entropia, ma più leggo e meno mi sento sicuro. Riesco a seguire le definizioni dell’Oxford, il modo in cui la spiega Isaac Asimov e, in parte, anche certi suoi aspetti matematici. Eppure quantità e qualità non riescono a mettersi insieme per formare un unico concetto nel mio cervello […]. Tutti vi consiglieranno di scrivere di cose che sapete. Il problema è che nelle prime fasi dell’esistenza crediamo di sapere tutto – oppure, se preferite qualcosa di più chiaro, diciamo che siamo spesso all’oscuro dell’estensione e della struttura della nostra ignoranza. L’ignoranza non è semplicemente uno spazio vuoto sulla cartina mentale di una persona. Ha dei contorni e una coerenza interna, e per quel che ne so funziona in base a certe regole“. D’accordo, potrebbe chiedere a questo punto il lettore, ma di cosa parlano davvero i racconti contenuti in Entropia? Quali temi squadernano? Ancora una volta a rispondere è l’autore nella sua introduzione, nel momento in cui dà l’unica definizione presente nel volume, quella positiva di ignoranza intesa come sistema dotato di una propria coerenza interna. Ed è proprio l’ignoranza, l’ignoranza di tutti i personaggi che disegna di fronte a un reale opaco, visto come attraverso un vetro smerigliato, avvicinabile solo per tentativi, per approssimazione, mai oggetto di autentica conoscenza ma solo di interpretazioni spesso fantasiose, assurde, contraddittorie, quella che viene messa in scena. Già in questi racconti Pynchon propone la visione delle delle cose che si ritroverà nei suoi romanzi (molti dei quali recensiti in questo blog; se vi interessa leggere quel che ho scritto, cercate il nome dell’autore), un approccio che considera la complessità delle cose una conseguenza della sostanziale impreparazione umana al suo esserci e al suo agire. Nel caleidoscopico universo pynchoniano non è l’assenza di senso a dettare legge; anche se le cose appaiono così, il grottesco, il folle, l’impossibile, non sono che una lettura autentica della storia, perché l’impatto dell’uomo sulle cose non può fare altro che distorcerle (nel migliore dei casi) o distruggerle. E scenari, ancorché agrodolci, di distruzione, sono quelli che si susseguono in queste storie; dall’uragano di Pioggerella, fino alla rivoluzione programmata dai ragazzi protagonisti de L’integrazione segreta, sovversione che ancora una volta è un tentativo di far fronte a una situazione che si percepisce come intollerabile ma di cui, in qualche maniera, si è parte, proprio come il galeotto è parte, e parte essenziale, della prigione che lo rinchiude.
Eccovi l’inizio del primo racconto. Buona lettura.
Fuori, il cortile della compagnia arrostiva lentamente sotto il sole.