Recensione di “Ascesa e caduta dei grandi poteri” di Tom Rachman
E se ogni cosa non fosse altro che un ben architettato scherzo? Se tutto si riducesse
a un inganno? Se i legami d’amicizia e d’affetto, a ben guardare, non avessero niente a che fare con i sentimenti e riguardassero invece l’egoistico e fin troppo concreto interesse personale? Se i grandi principi e gli ideali eterni, immortali per mezzo dei quali è stata scritta la storia, una volta rivelati per quel che sono davvero, si riducessero a menzogna? Se gli atti di eroismo, gli esempi più fulgidi di generosità e bontà, le azioni nobili e magnifiche, financo i sacrifici di sé fossero vizi travestiti da virtù? Se il coraggio fosse viltà? E se la verità, semplicemente, non esistesse? Cosa accadrebbe se non avessimo nulla in cui credere? Cosa rimarrebbe delle nostre vite se scoprissimo che sono un falso, una contraffazione, il frutto del lavoro di un illusionista, o peggio di un truffatore? Come reagiremmo se d’improvviso prendessimo coscienza del fatto che la sola realtà con la quale abbiamo a che fare, che ci definisce e che il nostro agire a sua volta contribuisce a disegnare, è un azzardo del tutto privo di regole? Forse il senso di vertigine da cui saremmo dapprima investiti e subito dopo travolti ci lascerebbe in balia del mondo, simili a naufraghi o a superstiti di un’immane catastrofe il cui unico orizzonte, a brevissimo termine e spogliato di ogni scopo complesso, è la mera salvaguardia del corpo; la vita ridotta alla frequenza del ritmo cardiaco, al pulsare del sangue, all’incosciente replicarsi del meccanismo del respiro. E in qualche misura proprio questo è ciò che succede all’enigmatica Tooly Zylberberg, protagonista di Ascesa e caduta dei grandi poteri, secondo romanzo dello scrittore anglo-canadese Tom Rachman (in Italia pubblicato da Mondadori nella traduzione di Delfina Vezzoli), figura volutamente sfuocata e incompleta che l’autore restituisce poco alla volta, in piccoli tasselli di puzzle sparsi lungo un arco temporale che dal 1988 al 2011. Tooly (Matilda), sempre al centro delle vicende narrate e nello stesso momento costantemente ai margini di tutto quel che avviene, burattino nelle mani di altre persone (genitori, tutori, amici) custodi dei numerosi segreti della sua vita, cresce raminga girando il mondo; dapprima in compagnia di colui che forse è suo padre e che come un padre tante volte si comporta, salvo poi cambiare radicalmente atteggiamento e tramutarsi in una sorta di estraneo, qualcuno che tiene Tooly con sé senza preoccuparsi di conoscerla veramente, di sapere chi sia e di cosa abbia bisogno; poi, in una New York gelida, indifferente, anonima, cuce gli uni agli altri giorni sempre uguali dividendo un alloggio di fortuna con un immigrato di origine russa appassionato di scacchi, letteratura e filosofia e addestrando se stessa all’arte del raggiro – cui è stata iniziata da un terzo, misterioso tutore, un uomo invischiato in una quantità inimmaginabile di affari, nessuno dei quali trasparente, che la tratta come fosse una socia, anzi la principale (e preferita) tra i suoi collaboratori e tuttavia non arriva mai fino al punto di coinvolgerla direttamente in ciò che fa – infiltrandosi in appartamenti abitati da sconosciuti (e nelle loro vite) adottando come scusa il fatto di aver abitato proprio lì, in quella casa, da bambina.
Attraverso lo sguardo disincantato e cinico di Tooly (convinta di non essere come gli altri, di avere qualcosa in comune solo con l’uomo per il quale crede di lavorare) Rachman osserva il precipitare nel caos di un presente atemporale che si ripete identico nei diversi anni lungo i quali il romanzo si dipana; ed è proprio qui, quando dovrebbe definitivamente decollare, che il suo lavoro si sfalda. L’autore, infatti, sordo (forse perché non la conosce) alla preziosa lezione di Thomas Bernhard, secondo il quale è possibile (addirittura auspicabile) scrivere un romanzo senza ricorrere al dialogo, procede sempre più per accumulo, appesantendo la sua prosa con l’inserimento, che non è esagerato definire compulsivo, di dettagli spesso inutili, virando al grottesco per dare enfasi a situazioni che, raccontate con la semplicità che sarebbe necessaria, avrebbero poco o nulla da dire (e dunque andrebbero espunte), e soprattutto rifugiandosi nell’ipertrofia di una serie di vivaci scambi verbali ai quali chiede troppo, condannandoli così a una irritante sterilità. La politica, la cultura, l’uomo stesso e il suo ruolo e posto nel mondo serviti a pranzo e cena come principale, o per dir con più esattezza unico, argomento di conversazione, diventano luoghi comuni e sviliscono l’idea sui cui dovrebbe reggersi il romanzo. Così, questo grande gioco di prestigio che, a giudizio di Tom Rachman, è la realtà, derubrica se stesso a elementare, pasticciata e quel che è peggio abusata “truffa delle tre carte”, avvizzendo in continui botta e risposta tanto fiammeggianti quanto impalpabili, e alla fine quel che resta di una storia costruita come un labirinto quasi impenetrabile è uno scontato scioglimento che inevitabilmente lascia in bocca il sapore amaro di una promessa non mantenuta.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
La sua penna ondeggiava sopra il libro mastro, tuffandosi verso la pagina mentre le sue affermazioni crescevano in vigore, la punta a sfiorare la carta, per poi sollevarsi come un aereo da esibizione acrobatica, solo per precipitare in momenti di enfasi, producendo una costellazione di puntini sempre più vaghi intorno alla solitaria registrazione della giornata, la vendida di una copia usata di Land Snails of Britain di A.G. Brunt-Coppell (prezzo: £ 3,50).