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Un atto di sopraffazione


Recensione di “Il vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago

recensione - josè saramago - il vangelo secondo gesù cristo
José Saramago, Il vangelo secondo Gesù Cristo, Feltrinelli

Il Figlio dell’Uomo, il Figlio di Dio, viene al mondo come ogni altro bambino, come qualsiasi altra vita: sporco del sangue della madre, piangente, inerme.

Ignora, questo nuovo nato, che il suo esistere è frutto di un atto di volontà, di più di una sopraffazione; ignora, colui che sarà chiamato Gesù, che oltre alla madre, Maria, e al padre, Giuseppe, egli deve il proprio esistere anche a Dio, al seme di Dio, mescolato a quello di Giuseppe. Di essere null’altro che un cieco strumento di un disegno egemonico, Gesù si renderà conto poco alla volta e contro il suo destino già scritto, già stabilito, lotterà al mondo in cui tutti gli uomini combattono, affidandosi alle proprie limitate forze, disperandosi, domandando pietà, chiedendo ragione per le molte, troppe cose che non comprende e che Dio invece sembra conoscere fin troppo bene. Di una vita del genere, fatta propria giorno dopo giorno nel modo quasi selvaggio, istintuale, primitivo con cui un predatore ghermisce la vittima su cui posa gli occhi difendendola poi contro tutto e tutti e malgrado ciò sfuggente, altra, estranea, quasi fosse ombra mostruosa proiettata da un corpo d’uomo, il premio Nobel per la Letteratura José Saramago racconta nel bellissimo, lacerante Il vangelo secondo Gesù Cristo (in Italia pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Rita Desti), romanzo che senza timore si sporge sull’intoccabile sacralità delle parole dei Vangeli, sull’irraggiungibilità del Verbo, per dare voce non a testimoni del divino giunto a sconvolgere, a dare scandalo (così dichiara, primo fra tutti, Paolo di Tarso), bensì al solo protagonista degno di questo nome, quel Gesù dapprima bambino, poi ragazzo e infine uomo nel quale la divinità non è né dono né scelta ma fardello, ingombro, sacrificio. Gesù che, troppo piccolo per rendersi conto di quel che sta per succedere, sfugge alla strage degli innocenti grazie al padre, che per caso ascolta una conversazione tra due soldati in procinto di obbedire al più osceno e vergognoso degli ordini; Gesù che deve affrontare il martirio, la morte sulla croce di Giuseppe, colpevole solo di aver voluto aiutare un amico; Gesù costretto a misurarsi con i dilemmi morali della colpa e della responsabilità dinanzi a un Dio ostinatamente muto e nei confronti del quale gli uomini non sembrano saper fare altro che replicare rituali uccisioni di animali.

Il Gesù di Saramago è dunque solo un uomo tra gli uomini ma nello stesso tempo è anche qualcosa di più e di diverso. Ma non lo è in forza di quel seme gettato nel corpo di Maria quasi si trattasse di un gioco, o peggio di un trucco da quattro soldi, di un imbroglio (e in fondo, sembra spingersi ad affermare lo scrittore portoghese, è forse così diverso un tale gesto da quello che molti padri, incapaci di pensarsi ed essere tali, compiono nel momento in cui, dopo aver sparso il loro seme in una donna, le voltano le spalle e la dimenticano?), bensì per l’ostinazione con la quale egli cerca, in ogni momento, di essere degno di se stesso, consapevole delle sue debolezze, coerente con ciò che ritiene giusto. Ed è in nome e in difesa della propria umanità che Gesù lascia la famiglia, si allontana dalla madre, dai fratelli e dalle sorelle, che cerca ovunque risposte che ritiene indispensabili, che trasgredisce le regole del Tempio, si fa pastore al servizio del Demonio, ama la peccatrice, la prostituta Maddalena tanto da farne compagna di vita, non solo di letto. Nella prosa di Saramago, nelle sue pagine intrise di dubbio, pianto e a tratti graffiate da esplosioni d’ironia che sottolineano quanto l’insensatezza di ogni cosa sia sempre in agguato e costringa ognuno a guardare a Dio, a rivolgersi al suo mistero, nella speranza di veder svelato, un giorno, quell’ordine che dovrà rendere ragione di tutto il disordine, di tutte le ingiustizie, Gesù è miracoloso nel suo essere null’altro che un uomo; i suoi miracoli sono il suo umanesimo, sono la pietà che egli nutre per ciò che vive, sono l’affetto, l’amore che prova; e quando, nel momento più intenso del romanzo, egli a bordo di una barca circondata dalla nebbia, celato agli occhi del mondo, sente dalla voce di Dio (e di Satana, che di Dio è in qualche misura inseparabile compagno, parte della sua natura) quel che il creatore di ogni cosa ha in serbo per lui e scopre per quale ragione è stato fatto nascere, perché è vissuto fino a quel momento e perché, da un certo punto in poi, ha potuto compiere quelle opere strabilianti che il popolo ha chiamato miracoli, è la sua natura di uomo a ribellarsi, è la sua natura di uomo a dire no, a rifiutare quel disegno in nome di una giustizia senz’altro imperfetta, parziale, insufficiente. E tuttavia misericordiosa. Ma un Dio di misericordia, ci dice Saramago, non potrebbe ambire al governo del mondo, all’adorazione terrorizzata delle genti tutte, perché un Dio di misericordia sarebbe troppo pericolosamente simile a un uomo, a Gesù, per il cui terreno vangelo nessuna salvezza è prevista.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Si vede il sole in uno degli angoli superiori del rettangolo, quello alla sinistra di chi guarda, e l’astro re è raffigurato con la testa di un uomo da cui sprizzano raggi di luce pungente e sinuose lingue di fuoco, come una rosa dei venti indecisa in quale direzione puntare, e quel viso ha un’espressione piangente, contratta da un dolore inconfortabile, e dalla bocca aperta emette un urlo che non potremo udire, giacché nessuna di queste cose è reale, quanto abbiamo davanti è solo carta e colore, nient’altro.

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