Recensione di “Sotto una buona stella” di Richard Yates
“Granate che esplodono e porte che sbattono. Le pagine di Sotto una buona stella sono lacerate da due guerre. Quella combattuta dal giovane soldato americano Robert Prentice, che salpa dagli Stati Uniti
per l’Europa, dove la seconda guerra mondiale è ormai quasi al tramonto, e quella che vede in trincea la madre di Robert, Alice Prentice, in perenne guerra con l’esistenza. Richard Yates le combatté entrambe: si arruolò nell’esercito e sbarcò in Europa, e patì i traumi privati dovuti prima al divorzio dei genitori – aveva solo tre anni – e poi alla crisi e al divorzio con la prima moglie. Questi dolori furono le porte da cui entrò la corrente gelida della tristezza che lo investì per il resto dei suoi giorni […]. L’unico vero analgesico fu la scrittura. Convinta di avere un talento artistico di scultrice – proprio come Dookie, la madre di Yates – sempre povera, con una vasta collezione di delusioni, animata da una frustrazione che alimenta in lei una disperata vitalità, Alice Prentice inanella un fallimento dopo l’altro, come artista, come madre, come donna […]. La divisione tra le guerre contro eserciti reali e quelle innescate dai propri miraggi, la dicotomia tra minestre e illusioni, tra progetti fumosi e debiti, innerva col tempo tutto il romanzo, dalla suddivisione della trama in capitoli distinti, ai temi affrontati, su e giù dalla struttura alla superficie […]. [Ma] l’impressione che siano due le guerre che si combattono in Sotto una buona stella è illusoria: si combatte un’unica guerra. L’attività dello scultore e la guerra militare sono due metafore complementari per raccontare una stessa verità sull’essere umano. La scultura è la metafora ideale per indicare il vizio che tarla tutto l’esercito dei personaggi di Yates: sono tutti convinti di poter dare forma al mondo e alla loro esistenza, imbevuti dell’illusione di poter plasmare la realtà secondo i loro programmi, e questo infinito dare colpi, incidere e piegare ciò che li circonda per modellarlo sui loro progetti non fa che consumarli, sfibrarli, debilitarli, condannarli all’infelicità. Dalla guerra militare tornano sconfitti anche i vincitori […] lo stesso Robert arriva nel vecchio continente quando ormai il conflitto mondiale è quasi finito e patisce l’impossibilità di realizzare qualcosa di epico. La guerra raccontata da Yates non assegna mai medaglie, non genera eroi, è, come la vita dei suoi personaggi, combattuta a vuoto, è una corsa sul posto, una vite spanata che non tiene nulla“. Nella bella prefazione di Francesco Longo a Sotto una buona stella di Richard Yates (in Italia pubblicato da Minimum Fax nella traduzione di Andreaina Lombardi Bom) non è tanto uno specifico lavoro del grande scrittore americano a essere analizzato quanto i temi che sostengono l’intera sua opera. Temi che si possono considerare differenti sfumature d’intensità di un’unica emozione, l’infelicità, che può toccare abissi di disperazione, galleggiare in una sorta di stordita mediocrità che si consuma nell’insensata attesa di un colpo di fortuna, di quel po’ di giustizia distributiva di cui la vita ignora l’esistenza e che la letteratura, mascherata con il clownesco belletto della finzione, si è incaricata di inventare, o peggio farsi ombra, compagna, divenire abitudine.
E abitudine, habitus, carattere, diviene per il giovane Robert (Bob) Prentice, figlio amato (e scandalosamente manipolato) di una donna incapace di pensarsi madre se il farlo significa mettere in secondo piano – o addirittura sacrificare del tutto – la propria considerazione di sé come artista, più precisamente come scultrice il cui indiscutibile talento pubblico e critica si ostinano incomprensibilmente a ignorare. Yates racconta l’infrangersi continuo, ininterrotto di una speranza che muta dapprima in sogno per poi farsi ossessione e infine degenerare in patetico, cieco isterismo, in cortocircuito etico e razionale; nella sua prosa, che ha il ritmo lento ma inesorabile di una tempesta che si fa di attimo in attimo più prossima, non sono il caso, o il destino, il primo motore delle tragedie che accadono. Nelle sue storie sono le persone a fabbricare il proprio naufragio, a consegnarsi al grigiore dei giorni, degli anni, nella doppia veste, solo in apparenza contradditoria, di vittime e carnefici. E in questo senso, ciascuno a suo modo, Bob e Alice sono quasi dei modelli, degli archetipi. Da una parte la figura, quasi intollerabile nelle sue granitiche certezze fondate sul nulla, di Alice, fallita in ogni possibile declinazione di se stessa e nonostante ciò indomita, persuasa che il domani le porterà finalmente quella giustizia che una vita intera non ha fatto altro che negarle, dall’altra il figlio Bob, ben conscio della situazione in cui versa la madre ma non abbastanza forte da metterla di fronte alla realtà dei fatti e dunque, in ultima analisi, complice della sua deriva. Una deriva che inevitabilmente lo contagia, indebolendolo, minando alla radice la costruzione della sua identità, corrodendo la fiducia in se stesso, esponendolo nudo, inerme, alla ruvida insensibilità del mondo, e lasciando al trauma della guerra e ancor più al gelo improvviso di lontananze non colmabili (dall’America all’Europa distrutta dal secondo conflitto mondiale) l’ultima possibilità del risveglio, dell’emancipazione, della salvezza.
Romanzo splendido, intriso di sofferenza, di lacerante verità, Sotto una buona stella è un’opera difficile da dimenticare, una lettura che colpisce al cuore, un purissimo gioiello letterario.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Di sabato, quando l’ispezione era terminata e in fureria si distribuivano i permessi, c’era un fuggi fuggi liberatorio per le strade di ogni compagnia di Camp Pickett, in Virginia.