Recensione di “Il paese sbagliato” di Mario Lodi
Quel che ancora oggi si considera rivoluzionario a scuola – e va detto subito con chiarezza che
troppo spesso con il termine rivoluzionario si indica e si intende il suo opposto, e cioè tutto ciò che è reazionario – non avrebbe nulla di sconvolgente, sarebbe anzi la doverosa normalità se solo la classe, ogni classe di ogni ordine e grado, avesse al centro coloro cui esclusivamente appartengono tanto gli edifici in cui giorno dopo giorno “si studia e si impara” quanto l’istituzione stessa: i bambini, le bambine, i ragazzi, le ragazze. Non ci sarebbe dunque nulla da demonizzare, né alcunché di cui lagnarsi se di fronte a un butto voto (o a un giudizio appena sufficiente, o ancora alla scelta di un livello di apprendimento che si potrebbe “tradurre” con il ben poco entusiasmante aggettivo “scarso”) l’insegnante, invece di contentarsi della responsabilizzazione a senso unico di chi deve darsi da fare perché ancora non sa (e che di tutta evidenza non si impegna a sufficienza, altrimenti non fallirebbe in verifiche e interrogazioni), si fermasse a riflettere su di sé, mettesse in dubbio la bontà del proprio operato, provasse almeno a domandarsi se qualcosa del suo metodo di insegnamento non dovrebbe essere rivisto, magari modificato o addirittura espunto e sostituito da qualcosa d’altro. E ancora non sorgerebbero oziose discussioni tra sordi, non ci si dividerebbe in folti e folli schieramenti in tutto simili a eserciti ciascuno munito del proprio solidissimo (quanto a pregiudizi) armamentario ideologico vedendo “maestri” e “maestre”, in una parola coloro che sanno, o che dovrebbero sapere, scegliere non di parlare ai loro alunni, magari dall’alto di una cattedra che assai meglio sarebbe se fosse un banco tra gli altri e non una sorta di cittadella fortificata e irraggiungibile, simbolo di un potere che come ogni potere ha ben poco di buono, ma assieme a essi in uno spirito di autentica eguaglianza e partecipazione e in tal modo aprirsi alla possibilità concreta, reale (ed effettiva, perché si verifica tutti i giorni, basta volerla guardare) di imparare dai più piccoli proprio mente cercano, con quel po’ di forze e soprattutto di umanità che possiedono, di insegnare, o meglio, di raccontare, narrare, esplorare, conoscere. Non ci sarebbe insomma nulla da obiettare se a scuola, in tutte le scuole, accadesse ciò che Mario Lodi, le cui lezioni di vita (che non a caso nella sua esperienza hanno sempre coinciso pienamente con la scuola) rimangono, a un secolo dalla nascita, che ricorre proprio quest’anno, di assoluta attualità, narra nel bellissimo saggio intitolato Il paese sbagliato – Diario di un’esperienza didattica.
Che Lodi sia ancora un solido punto di riferimento per chiunque si occupi di scuola, e in primo luogo per chi ha il privilegio di stare ogni giorno accanto ai bambini, è a un tempo meraviglioso e preoccupante. Perché Lodi è esempio luminoso per una minoranza di docenti, così come il suo modo di fare scuola, di intenderla, di metterla in pratica e difenderla è ancora troppo di frequente contestato, banalizzato, attaccato in nome di un’attenzione ai risultati, alla prestazione fine a se stessa, alla lezione imparata, memorizzata ma mai vissuta, mai interiorizzata, che si risolve nel bel voto (laddove ancora esiste) e subito dopo si distacca dalla vita vissuta dello studente come il sudore scompare dalla pelle dopo una doccia. Come se lo studente non fosse una persona. Come se nella persona non abitasse lo studente. Eppure come non accorgersi della verità evidente di queste parole e come, di fronte a esse, non agire di conseguenza? “La cultura del bambino […] è globale: vi troviamo contenuti delle varie discipline ma non organizzati come materie […]. La cultura del docente, a differenza di quella del bambino, è disciplinare. Essa considera la realtà da diversi punti di vista: scientifico, storico, matematico, geografico, filosofico […]. Se il docente costruisce il suo programma sulle materie da trasmettere […] l’apprendimento viene dissociato dal gioco-interesse e il bambino non è più protagonista ma ripetitore di nozioni“. Certo, Il paese sbagliato, si dirà è del 1970, è un libro datato, le sue ristampe, come quella letta da chi scrive queste poche righe, danno conto dei progressi fatti dalla scuola negli anni, dei miglioramenti che sono stati apportati ai programmi ministeriali, della nuova professionalità docente, e tutto questo rende il contributo di Lodi (che peraltro non dimentica di segnalare ogni progresso e di rallegrarsene) nobile ma a conti fatti… archeologico, superato in qualche misura. E tuttavia è proprio qui che ci si sbaglia, perché, al netto dei passi in avanti compiuti è ancora tanta la strada che resta da fare alla scuola per essere davvero la scuola dei bambini, e in questo quadro le parole di Mario Lodi (che fedelmente illustrano il suo agire, è bene ribadirlo nuovamente) sono ancora straordinariamente preziose. Il suo richiamo agli affetti, alle relazioni, all’esercizio paziente e faticoso della democrazia (che deve partire proprio da colui che ha il compito di guidare, di condurre, di educare), il suo continuo ricordare che è l’esempio a insegnare, e che è perciò è fondamentale una coerenza visibile e forte tra quel che si dice e quel che si mette in pratica, sono la concretezza della scuola nel nostro tempo quanto lo erano in tempi diversi e ormai trascorsi (ma per nostra fortuna non dimenticati, non da tutti almeno). Sono la fulgida bellezza del dover essere, che in questo caso non è il sogno utopico contrapposto alla realtà così spesso desolante dell’essere, di ciò che è, ma il cammino che quest’ultimo deve intraprendere per raggiungere e riconciliarsi, finalmente, con se stesso, con la sua più intima e vera essenza.
Eccovi l’inizio del libro. Buona lettura.
La ristampa del Paese sbagliato appare mentre migliaia di giovani maestri, dopo il concorso magistrale, entrano nei ruoli della scuola elementare come docenti.