Recensione di “La passione secondo G.H.” di Clarice Lispector
“Figlia di ebrei russi emigrati dall’Ucraina in Brasile negli anni ’20 del secolo [scorso], Clarice
Lispector si è allontanata presto dalla religione d’origine. Si racconta, tuttavia, che i suoi ultimi giorni di vita siano tati segnati dal timore di morire di venerdì. Se così fosse successo, le esequie sarebbero state celebrate soltanto la domenica perché la famiglia – rimasta praticante – non avrebbe potuto turbare il giorno festivo del sabato con le cerimonie della morte. Il timore era destinato a rivelarsi premonizione: il cancro avrebbe compiuto il suo lavorio venerdì 9 dicembre 1977, alle dieci e mezza del mattino […]. Dal vivere allo scrivere, La passione secondo G.H. […] riferisce […] la ricerca di una fusione che permetta all’individuo di smarrirsi come soggetto per esistere, senza più disagi, oggetto tra gli oggetti del mondo. In altri termini, La passione secondo G.H. è emblema della traversia vissuta in prima persona da Clarice Lispector e, inoltre, della traversia individuabile nelle zone più feconde della letteratura contemporanea: è tentativo di oggettivare l’inoggettivabile […]. All’inizio […] la perdita dell’identità si configura subito come rigetto della santità che l’Antico Testamento addita quale modello di comportamento. Penetrata nella camera della domestica con l’intento di riordinarla, aggredita dalla consistenza uniforme di oggetti sottratti alle maschere della forma, avanzata in uno spazio di luce dirotta, G.H., soltanto due iniziali dietro cui è facile scorgere il viso di Clarice Lispector, si avvia verso la dissoluzione. I segni sacrali della sua soggettività – la casa fresca e umida, fra colori e superfici addomesticate nel culto dell’ordine e della bellezza – scompaiono presto alla vista di un ambito inatteso, dove si distende il silenzio duro e riarso della materia bruta, ignara di distinzioni e artifici. Ne passaggio rapido eppure scandito da annunci premonitori […] questa donna […] si trova ad affrontare d’improvviso la cosa precedente il gesto generatore del dio: un frammento esemplare della vita pre-umana. Perché, sotto il suo sguardo in raccapriccio, emerge dal fondo buio di un armadio e si affaccia dall’anta dischiusa una blatta, enorme e lenta“. Filo d’Arianna di un labirintico romanzo non-romanzo (o se si vuole perfino antiromanzo), la nota di Angelo Morino che chiude La passione secondo G.H. (In Italia pubblicato dall’editore La Rosa nella traduzione di Adelina Aletti) guida il lettore nelle profondità di un’analisi che non ha nulla di premeditato, che esplode nell’anima e nella testa dell’autrice con la violenza improvvisa di un trauma, di uno spavento, illumina con la precipitosa emergenza di un’intuizione, spariglia ogni equilibrio con la travolgente potenza di un uragano. L’autrice racconta quasi sottovoce, quasi sciogliesse in parole ardue, da scandagliare una dopo l’altra, una verità per la quale non possano esistere altri termini oltre quelli scelti; il suo narrare così intimo, che inevitabilmente prende la forma di un monologo, di una voce che si perde nel momento in cui si rapprende nella cosa detta, la quale inizia a esistere, ad avere realtà, proprio grazie al sacrificio della parola che l’ha resa autentica, che l’ha creata (perché ogni atto di creazione esige il sacrificio di colui che crea), è un viaggio che ha come meta nient’altro che il cammino stesso, l’orizzonte mai raggiungibile e tuttavia indispensabile, necessario in quanto unico possibile strumento in grado di orientare il cammino.
Investita senza preavviso dall’incombere di un esistere individuale che pretende di essere spiegato, dimostrato, che urla il proprio bisogno di certezza, che esige, con metafisico capriccio, la dimostrazione, la benedizione umana, divina, filosofica, scientifica, razionale ed emotiva dell’incontestabilità, di fronte alla richiesta, da parte della vita umana, di essere riconosciuta, di essere convalidata (“Ho perso”, scrive nelle prime righe del libro, “una cosa che mi era essenziale e non lo è già più […] come se avessi perduto una terza gamba che finora mi impediva di camminare ma che di me faceva uno stabile treppiedi”), G.H., che per l’intero libro resta frammentata in queste iniziali che pur permettendo al lettore di individuarla non consentono in nessun modo, né a chi legge e neppure a colei che scrive (forse di se stessa, forse di ciò che abita oltre il suo sé, al di là di qualsiasi altro sé, dove è l’oggetto privato di ogni soggettività, di ogni sguardo che si allontana dal proprio centro) di identificarla con sicurezza, scava in quella che forse è un’illusione, penetra in quell’inestricabile labirinto di specchi che è il vivere su cui ci adagiamo con la morbida noncuranza dell’abitudine, senza mai sospettare dove sia e da cosa sia composto quel sostrato che regge l’eterno ritorno del consumarsi dei giorni. Clarice Lispector cerca con disperazione, soffermandosi a tal punto sulle parole da cominciare ogni nuovo capitolo, quasi non potesse essere altro che il tentativo di chiarificazione, di spiegazione di quanto esposto fino a quel momento, con la stessa frase che ha chiuso il capitolo precedente. Ogni passo è dunque sostegno del passo che viene dopo, ogni pagina si regge su quella appena conclusa. Per giungere dove? Da Nessuna parte, probabilmente, o forse in tutti i luoghi, ovunque, perché è da ogni luogo che saetta lo sguardo dell’autentico, di ciò che è. Perché ciò che è può essere solo dappertutto. Altrimenti non potrebbe essere.
Lettura claustrofobica, disturbante, densa di richiami al pensiero religioso, dal quale l’autrice è allo stesso tempo attratta e respinta, La passione secondo G.H. somiglia a un diabolico giro di giostra, a una sorta di pericolosissimo veleno letterario che, ingurgitato, mette a dura prova la resistenza del lettore prima di compiere per intero la propria opera e fortificare colui o colei che ha così tanto prostrato, donando nuovi occhi, una nuova vista.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
… cerco, cerco. Tento di capire. Tento di dare a qualcuno ciò che ho vissuto e non so neppure a chi, ma non voglio tenere per me ciò che ho vissuto.