Recensione di “Cosa mi dice il mare” di Lorenza Stroppa
Avere un segreto significa essere un segreto. La parola negata, il silenzio imposto, gli
occhi ostinatamente chiusi, le altissime e apparentemente invalicabili mura erette da volontà, intenzione, paura e rimorso mutano poco alla volta nel loro opposto, si fanno terra grassa e feconda, si fanno carne, divengono uomini e donne, copie, repliche dei loro custodi, guardiani essi stessi di ciò che dovrebbero mantenere taciuto, inespresso e che pur senza fiato emerge limpido nella postura dei corpi, nelle trafitture degli sguardi, in quell’agire d’ombra, schivo, colpevole, innaturale suo malgrado che finisce per attirare l’attenzione, risvegliare la curiosità, accendere il desiderio di conoscere proprio nel momento in cui si sforza di ottenere l’effetto contrario. Avere un segreto significa vivere all’interno di un invalicabile confine la cui sostanza è di volta in volta il tempo, un’ossessione da cui si viene fagocitati, un’attesa destinata a non concludersi mai, una ferita che non vuole saperne di rimarginarsi. Ed è proprio il segreto (e tutto ciò che porta con sé) il centro attorno a cui ruota Cosa mi dice il mare, agrodolce romanzo di Lorenza Stroppa che ha nella suggestiva ambientazione (siamo a Douarnenez, sulla costa bretone) uno dei suoi maggiori punti di forza. A narrare la vicenda, sospesa tra un presente quasi impossibile da vivere e un passato che non è in realtà mai davvero trascorso e le cui lacerazioni, i cui traumi, chiedono con sempre maggior insistenza la cura e l’attenzione che sono state loro troppo a lungo negate, sono due voci, quelle di una madre e di un figlio (anche se la seconda è indiretta, mediata, come fosse un’eco della prima). La trasparente simbologia di un eternità – in tutto simile alla circolarità sempre rinnovata delle stagioni – che l’avanzare delle generazioni sembra spezzare proprio quando in realtà la perpetua (la nascita dei figli, la loro somiglianza fisica con i genitori, il sostanziale replicarsi delle esperienze giovanili, che riportano gli adulti a ripensarsi, spesso a riscoprirsi, a ridisegnare nei desideri e nei rimpianti un quadro ormai intoccabile e a coltivare, per quelle ragazzi e quei ragazzi tanto amati, speranze che per loro sono state naufragi) fa da bussola a una storia d’amore, odio, sofferenza e pietà nella quale a operare, come fosse una sorta di benevola divinità immanente, è un’insopprimibile legge di gravitazione universale dei sentimenti.
Così, all’inaspettata, improvvisa fuga di una madre, con la quale il romanzo si apre, segue il soggiorno del proprio figlio (adorato, e forse proprio per questo motivo lasciato solo da un giorno con l’altro, senza alcuna spiegazione) esattamente nel paesino costiero che vide fiorire (e appassire) l’adolescenza della mamma, ospite non sempre benvoluto dei nonni materni. Ed è qui, nel raccolto borgo di Douarnenez che il respiro del mare dilata a dismisura facendolo diventare un intero mondo, dove ogni cosa trova, se non il proprio posto, quantomeno riparo (la memoria, il dolore, la rabbia, la rivalità il gioco, la scoperta di sé e più di tutto l’amore, i cui volti sono innumerevoli), che le due traiettorie esistenziali, immaginate divergenti, tornano a congiungersi. E il loro ritrovarsi è a tutti gli effetti un compimento, la fine di un viaggio; quello della donna, reale e metaforico allo stesso tempo, che in quel luogo per lei così importante sente di dover tornare, sola, per affrontare una volta per tutte i propri fantasmi, quello del suo giovane figlio, che dinanzi al mare, alla sua lingua muta e universale che incessantemente racconta, a chiunque voglia e sappia mettersi in ascolto, qualsiasi storia sia possibile immaginare, capisce di dover dire addio alla fanciullezza per aprirsi alla vertigine di un ignoto che gli apparterrà solo se lui troverà il coraggio di abbandonarcisi, e infine quello delle generazioni (i padri, oggi nonni, i figli, oggi padri, e infine i più giovani, ragazzi e ragazze, che domani saranno madri, padri e un giorno, chissà, nonni) che soltanto le scelte e non il neutro e inesauribile scorrere del tempo allontanano e separano, a volte con spietata ferocia.
Tra dramma, romanzo di formazione, storia d’amore e intreccio familiare, Cosa mi dice il mare ha i colori insieme tenui e pieni delle emozioni; proprio come il mare dentro il quale la storia nasce e muore di continuo, il libro accoglie gentile, quasi remissivo, il lettore tra le sue pagine per poi invaderlo, riempirlo di sé fino al raggiungimento della riva, della salvezza, che ha il sapore di una meta raggiunta, di una promessa finalmente mantenuta.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
È un autunno caldo, un colpo di coda dell’estate, l’aria profuma di castagne e nostalgia.