Recensione di “L’archeologia dell’amore” di Catalin Pavel
Eros, il dio greco dell’amore che siamo abituati a conoscere nelle rappresentazioni
artistiche ellenistico-barocche in forma di innocente e paffuto fanciullo, vive nella classicità in ben altre vesti, la più interessante delle quali è senza dubbio quella di metro di giudizio. La divinità, infatti, appare anche (per quanto molto più raramente rispetto all’iconografia appena ricordata) sui due piatti di una bilancia tenuta da Afrodite. Con quale ruolo? Con quale significato? Risposte certe a queste domande non ce ne sono, ma ipotesi sì, come per esempio quella che ritiene che oggetto del giudizio siano i diversi aspetti del sentimento d’amore, come la passione provata soltanto da una persona per l’altra (per l’appunto l’eros) e quella ricambiata (anteros). Ancora, Agatha Christie, forse la più famosa scrittrice di gialli della storia della letteratura, sposata in seconde nozze con un archeologo, è autrice anche di un interessantissimo libro di archeologia (e d’amore) intitolato Come, Tell Me How You Live, raffinato e ironico diario di vita di coppia in Siria negli anni 30 (dove il marito era impegnato in uno scavo). Eccone alcuni stralci: “Una donna porta suo figlio con un handicap mentale dal direttore del cantiere, per un consulto. Max [Mallowan, il marito della Christie] le dice che non ha nessuna medicina da darle – è così che Allah ha fatto nascere il bimbo. Al che la donna, con un tono molto pragmatico […], gli chiede di darle in questo caso del veleno. Mallowan garbatamente rifiuta, e la mamma va via delusa e furiosa. Agatha è in realtà quella che, pur parlando a malapena la lingua, si prende di solito cura dei lavoranti e delle loro famiglie, e la cosa va avanti con qualche intralcio. Ad esempio, per diverse affezioni agli occhi, lei raccomanda, nel modo più chiaro possibile, lavaggi con acido borico, e alcune pazienti ritornano guarite dopo che avevano bevuto la soluzione“. Da Agatha Christie a Sigmund Freud: può sembrare inverosimile che egli fosse coinvolto in qualcosa che oggi consideriamo turpe come uno scavo illegale eppure è stato così. “Freud viene a sapere degli scavi di Intercisa nel 1910 da un collaboratore ungherese, sempre psicanalista, Sandor Ferenczi. Il luogo si chiamava allora Duna Pentele (oggi Dunaujvaros, in Ungheria) […]. Informato […] con molto zelo da Ferenczi sull’andamento delle cose, mandava delle somme di denaro come acconto che l’altro (lui stesso, a Budapest, a quattro ore di treno dal sito) dava a un mediatore senza scrupoli che sguinzagliava i contadini locali, indigenti, sulle antiche tombe. Gli oggetti che Freud riceveva – di contrabbando – da Duna Pentele non erano chissà cosa […] avevano in verità il vantaggio di essere un affare, come riconosce anche lui in una lettera a Ferenczi del 13 febbraio 1910 […]. Apparentemente capiva di fare qualcosa di riprovevole, anche se all’epoca l’opinione pubblica non era così edotta, come oggi, riguardo all’enorme danno provocato dagli scavi illegali“.
Non c’è che un criterio di assoluta arbitrarietà (e gusto) personale nella scelta di questi esempi, tratti da un saggio coltissimo e lieve, straordinariamente ricco di notizie e scritto con la complessa semplicità propria di chi conosce a fondo la profondità degli argomenti che sta trattando e sa come proporli a un pubblico di non addetti ai lavori, interessandoli a ciò che viene detto e nello stesso tempo invogliandoli a non fermarsi alle prime scoperte (che poi, banalizzando forse troppo senza tuttavia fraintendere la realtà dei fatti, è quel che fa ogni archeologo); L’archelogia dell’amore di Catalin Pavel (Neo edizioni, traduzione di Bruno Mazzoni). Spostandosi nel tempo (dall’uomo di Neanderthal a De Chirico, passando per coloro che sono già stati citati e per molti altri ancora) e nel globo, sempre sorretto da una prosa brillante, vivacissima, che alla dotta grevità della pubblicazione specialistica sostituisce (scelta felicissima per il lettore) l’esperta leggerezza della divulgazione, Pavel racconta l’eternità dell’amore che lega gli uomini tra loro attraverso le tracce lasciate nei secoli, dalla postura dei resti umani preistorici ritrovati agli oggetti rituali sepolti nelle tombe e nei monumenti funerari, dalle testimonanze scritte (in carteggi privati, sui muri delle case, nei luoghi espressamente dedicati agli incontri e alle pratiche amorose) alla straordinarietà delle vite vissute (si veda il capitolo dedicato a Gertrude Bell). Lungi dall’essere “semplicemente” un saggio ottimamente scritto capace di coinvolgere e appassionare come e più di un romanzo, L’archeologia dell’amore è un’opera che ha la grazia di una forma d’arte, un lavoro che respira nella libertà piena della sua composizione – “Ho dimostrato qualcosa?” si chiede Pavel alla fine del testo. “No”, replica con assoluta ragione, ma non perché, si permette di aggiungere chi scrive, non ne sia stato capace, bensì per il semplice fatto che non c’era bisogno di dimostrare alcunché, soltanto di raccontare – ed è ancora lui a descriverla
come meglio non si potrebbe: “Jean Baudrillard dice da qualche parte una di quelle cose banali che contengono un profluvio di verità: che, in fondo, le antichità sono belle perché sono sopravvissute […]. Mi piacerebbe poter riformulare qui il postulato di Baudrillard in questo modo: se è possibile trovare sia pure solo una traccia dell’amore, significa che l’amore è sopravvissuto nella sua interezza“
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Il primo amore non si scorda mai, e il primo amore del mondo può essere stato quello tra l’uomo di Neanderthal (cioè l’homo neanderthalensis – l’uomo arcaico, più esattamente uno di loro) e l’uomo di Cro-Magnon (uguale all’homo sapiens – l’uomo anatomicamente attuale).