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Miliardi di unità


Recensione di “Città sola” di Olivia Laing

recensione - olivia laing - città sola
Olivia Laing, Città sola, Il Saggiatore

La distinzione (e la conseguente separazione) tra ciò che è reale, o della realtà parte, e

pertanto può dirsi concreto, verificabile, può, anzi deve, essere considerato oggetto d’esperienza potenzialmente universale, e ciò che invece è frutto di sensazione, di vissuto personale, o peggio si orgina da una particolare disposizione negativa, magari da un malessere, da un disturbo, da un trauma, ammesso che abbia una sua generica validità – perché al netto di conclamate psicosi o di malattie particolarmente gravi capaci di compromettere la capacità di giudizio e discernimento non è certo possibile sostenere che quel che si prova individualmente, qualsiasi sia la sua qualità, non debba dirsi vero, autentico, dunque a tutti gli effetti reale, reale quanto è reale un muro contro cui si finisce per andare a sbattere se non si cambia direzione per tempo – cessa d’averne se la si applica alla solitudine, al sentirsi soli, condizione nella quale quel che si prova e ciò che allo stato dei fatti si è coincidono. Vivere soli, infatti, è esistere soli, è affrontare il vuoto, l’assenza, il silenzio; è misurarsi con distanze che non sono colmabili; è sentire, con la stessa evidenza con la quale si sente la ruvidezza di un tessuto o il tono dolce o infastidito o rabbioso di una voce, il proprio destino d’abbadono, reso ancor più feroce e insopportabile dalla presenza, inutile, ingombrante, inevitabile, di milioni, di miliardi di altri essere umani ai quali nulla ci lega e che restano incommensurabilmente lontani da noi. Tutti allo stesso modo. Quelli che conosciamo come gli assolutamente estranei. La solitudine, in una parola, è, nel quotidiano, quel che ci sentiamo addosso ora dopo ora, nel corpo e nei pensieri, nei gesti e negli sguardi, nei discorsi fatti e in quelli immaginati che forse non pronunceremo mai, negli incontri occasionali e negli appuntamenti mancati; la solitudine che ci cresce dentro come un male incurabile e che al di là di noi, fuori, nel mondo, tra la gente, lungi dal trovare un antidoto, il proprio opposto, la sua negazione, incontra la sua eco moltiplicata all’infinito. Di questa solitudine, della realtà oggettiva, fisica, persistente, scientifica verrebbe da dire, perché sperimentabile, misurabile, presente, racconta Olivia Laing nel suo splendido, travolgente romanzo-saggio Città sola (Il Saggiatore, traduzione di Francesca Mastruzzo); prendendo le mosse da un dettaglio personale (una relazione d’amore naufragata) la scrittrice inglese si immerge in una New York a un tempo inerte e brulicante di vite disgregate e disperate con una profondità d’analisi e un trasporto emotivo che lasciano senza fiato e non di rado arrivano a commuovere.

Nelle pagine del suo superbo lavoro letterario New York è un palcoscenico di fronte al quale, di volta in volta, si raccontano persone sole la cui condizione, oltre a essere vita, oltre a essere realtà, oltre a essere la dolorosa, intollerabile coincidenza delle due cose, si è fatta arte, a volte toccando il successo (è il caso di Edward Hopper, pittore di solitudini così intense, talmente lancinanti nella loro nudità, da ferire occhi e cuore, e di Andy Warhol, il cui sogno più grande era mutarsi in una macchina per poter così registrare ogni possibile emozione restandone immune), altre volte languendo fino alla fine in un anonimato tanto subito quanto cercato e difeso, preteso come misura di protezione verso l’indifferenza brutale di un prossimo che prossimo non è mai stato (indimenticabili, in questo senso le parti dedicate a Henry Darger, che spese l’intera sua esistenza alla costruzione di un mondo altro da quello nel quale era costretto a consumare i suoi giorni, cui diede vita in migliaia di pagine scritte e in decine e decine di quadri), altre volte ancora lasciando a quel che veniva realizzato, al manufatto artistico, il compito di raccontare, senza finzione alcuna, il creatore e il suo rapporto con tutto ciò che lo cirondava (come fece, con magnifica e terribile originalità, David Wojnarowicz). Laing narra senza sosta, in un’irrefrenabilità emotiva da diario personale ma con un linguaggio sorvegliato e puntuale, al tempo stesso di grande precisione (nel rispetto dell’argomento trattato, i cui richiami medici e psicologici non sono eludibili) e stilisticamente raffinato e suggestivo, conducendo il lettore fin nel cuore delle esistenze che prende in esame; non c’è compiacimento nei dettagli che rivela, nelle oscurità che riporta a galla, negli orrori (perché a volte di autentici orrori si tratta) che riferisce (e viene da chiedersi come possano averli affrontati coloro di cui parla, come possano essere sopravvissuti a tutto quel dolore) solo volontà di capire per quale ragione, oggi come ieri, patire solitudine significhi inevitabilmente essere condannati a essa. Come se il sentirsi soli e l’esserlo non fossero una medesima cosa, un’identica realtà ma al contrario un’anomalia da curare, una distorsione nella lettura del vero, dell’evidente.

Romanzo-non romanzo che nella sua perfetta bellezza e nel suo spietato rigore non lascia scampo e si legge d’un fiato, Città sola è un’opera di enorme valore, un libro come dovrebbero esserlo tutti, una lettura che arriva dritta al cuore conclusa la quale non è più possibile guardare alle cose nello stesso modo in cui le si è osservate fino a quel momento.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto, al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde, bianca o dorata.

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