Recensione di “Tomàs Nevinson” di Javier Marìas
“Ti ricordo che i reati vanno in prescrizione […]. Che
senso ha che dopo diciannove anni e undici mesi un criminale possa essere ancora severamente giudicato, ma trenta giorni dopo non più? […]. Oggi posso essere condannato a mille anni di carcere e domani rimango a piede libero perché non si può più fare niente? A un tratto non ci sono più né colpa né delitto ed è tutto cancellato da un foglio di calendiario? Il tempo trasforma quello che è esistito in non esistente? La giustizia è assurda, è un’entelechia, è impossibile. Facciamo finta che esista e la applichiamo, ma non può esistere. Un altro discorso è che accettiamo le sue regole insensate per salvare le apparenze […]. Non credo che a nessuno importi più nulla dei delitti commessi duecento anni fa, o anche cento […]. Se coloro che li hanno commessi fossero ancora vivi, dubito che qualcuno sprecherebbe energie per punirli […]. Diamo per scontato che certi crimini siano sempre esistiti e che facciano parte del mondo, che ogni tempo abbia i suoi e che sia compito dei contemporanei punirli. Se all’epoca non è stato possibile, la cosa non riguarda più noi, che dobbiamo occuparci dei nostri. Il numero dei delitti commessi nella storia è così immenso che non ci basterebbero le forze. Per questo, quando la gente aveva fede, li lasciava per il Giudizio Finale. Si confidava nel fatto che Dio avrebbe messo ciascuno al suo posto e che per di più avrebbe saputo quali atti meritavano una condanna e quali invece erano giustificati; e chi si era pentito sinceramente poteva essere salvato. Era un mondo più confortante, nel quale ci si aspettava che la giustizia di Dio arrivasse dove non arrivava quella dei viventi“. L’agente dei servizi segreti britannici Nevinson, protagonista dell’intenso e doloroso romanzo di Javier Marìas (prematuramente scomparso solo pochi giorni fa) Tomàs Nevinson, sorta di seguito di un altro magnifico lavoro letterario, Berta Isla (il Tomàs del titolo, marito di Berta Isla, viene arruolato giovanissimo nelle file dell’MI5 e Berta, prima fidanzata e poi moglie dell’uomo, sempre all’oscuro delle trame e dei disegni in cui il consorte è coinvolto, vive la sua intera esistenza di compagna e di madre sopportando come può le sempre più numerose assenze del marito, impegnato, presume, in pericolose missioni in giro per il mondo e infine, al culmine di una lontananza e di un silenzio eccezionalmente lunghi, accettando ed elaborando tra infinite sofferenze la notizia della morte di colui che ancora amava e che aveva spossato con convinzione, con desiderio; una morte inventata, costruita ad arte, pensata e messa in scena per proteggere Nevinson che a un certo punto, quando nessuno più lo cerca, né Berta né i suoi due figli, che lui non ha quasi conosciuto e che non possono e forse neppure vogliono ricordarsi di chi non hanno mai potuto chiamare padre, ricompare; vivo certo, ma distrutto nella sua integrità di essere umano), riflette su temi cardine come colpa e punizione, delitto (di sangue) e vendetta nel momento in cui, ormai congedato dal servizio attivo, viene richiamato dal suo superiore che decide di affidargli un nuovo incarico. Nevinson, per quanto stanco e nauseato da tutto ciò che ha visto e compiuto (compresa l’uccisione di due uomini, due avversari, due nemici che avrebbero fatto lo stesso ai suoi danni se lui non fosse stato più furbo, più svelto, più abile), accetta di tornare in campo. Perché lo fa? Perché ancora una volta sceglie di mettere a rischio il fragile rapporto che è riuscito a ricostruire con Berta e con i figli, e con esso, forse, la sua vita? Per quale ragione, se la giustizia, che dovrebbe incarnare, che i servizi segreti di ogni Paese sono convinti di rappresentare sventando attentati, eliminando terroristi, rendendo inoffensivi autori di stragi terribili utilizzando, se serve, i loro stessi metodi brutali, in realtà non esiste? Per quale motivo, se tutto ciò cui gli uomini possono giungere è la rabbiosa, istintuale miopia della vendetta, del colpo più forte, più letale, più definitivo sferrato in risposta a quello ricevuto?
Ben conscio dei suoi dubbi, Tom Nevinson si lascia comunque convincere. Il suo bersaglio questa volta, è una fiancheggiatrice dell’Eta, l’organizzazione terroristica basca che ha sparso sangue a piene mani travestendo ogni eccidio da lotta di liberazione, la cui partecipazione a due spaventosi attentati (realmente avvenuti) è stata accertata dai servizi segreti. La donna, con ogni probabilità un’esponente dell’Ira (l’esercito irregolare, clandestino nordirlandese, le cui battaglie politiche sono, al pari di quelle dell’Eta, segnate da innumerevoli omicidi e stragi), ha cessato ogni attività da dieci anni ma potrebbe tornare a colpire in qualsiasi momento. L’agente Tomàs Nevinson ha il compito di individuarla: tutto quel che si sa di lei è che si nasconde in una cittadina della Spagna, ma sull’identità che ha scelto per questa sua nuova vita non v’è nulla di sicuro. Tre sono le donne sospettate di essere quella che l’intelligence intende trovare e fermare (arrestandola nel caso in cui si trovino prove effettive del suo coinvolgimento nelle stragi, uccidendola in caso contrario) e Nevinson deve dapprima avvicinarle tutte e tre e poi identificare la responsabile.
Tanto nella prima parte del romanzo, tutta giocata sui tentennamenti del protagonista (e sul suo parallelo desiderio di tornare a contare qualcosa, di “far parte di nuovo del gioco dopo esserne stato escluso”, dopo essere stato congedato), quanto nella seconda, ambientata nella cittadina che fa da sfondo al lavoro di spionaggio, a prevalere è il logorante tarlo di un dubbio che lungi dal simboleggiare un’umanissima e naturale mancanza di conoscenza (ciò che non si sa è quasi sempre il dato di partenza, ma si tratta anche del punto di avvio; l’ignoranza, in una parola, è il principio del cammino che conduce alla conoscenza) è invece la manifestazione di una assenza di sapere dal sapore metafisico, che pesa sulle esistenze come una condanna. Come è possibile, ci chiede a più riprese Marìas, agire nell’inesistenza di confini morali? Come vedere il bene, e di conseguenza il male, se è sufficiente il trascorrere del tempo perché gli occhi con i quali si guardano determinati fatti, e i cuori chiamati a giudicarli, giungano a mutare se stessi talmente a fondo da divenire l’opposto di quel che erano (o forse erano solo convinti di essere?.
Così, il raconto di una caccia all’uomo diventa una storia dove a dominare sono silenzi carichi di pensieri e attese colme d’angoscia. Marìas, nel dare la voce ai suoi personaggi, volta a volta tormentati, cinici, volutamente chiusi e misteriosi o al contrario fin troppo trasparenti, talmente tanto da far sospettare che l’eccessivo mostrarsi altro non sia se non un modo per celarsi meglio agli sguardi, affronta i dilemmi morali al centro del suo lavoro con una radicalità da tragedia greca. A se stesso, ai suoi eroi in chiaroscuro, al lettore, non offre il conforto di risposte o soluzioni (neppure parziali); la sua prosa, che ha il respiro lento e sicuro della marea, illumina l’irriducibile irrazionalità della sofferenza e del caos che tutto circonda, alle quali l’uomo non può che opporre il fragile (e tuttavia irrinunciabile) riparo di un amore tenace e imperfetto.
Eccovi l’inizio del libro (in Italia edito da Einaudi nella traduzione di Maria Nicola). Buona lettura.
Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna.