Recensione di “Il ragazzo giusto” di Vikram Seth
L’infanzia di una nazione si specchia nella maturità sofferta, nella vita vissuta di coloro
che lo abitano, che per quella terra hanno conosciuto sacrifici, ingaggiato lotte, sopportato rovesci di ogni sorta, assaporato gioie che lo scorrere del tempo ha poco alla volta reso sempre più impalpabili ma mai del tutto cancellato. L’atto di nascita di un Paese, la sua fondazione, la sua prima alba hanno fondamenta che poggiano su taciturni, dolenti secoli di generazioni che hanno lasciato spazio ad altre generazioni e ad altre ancora, in quella sorta di irraggiungibile eterna circolarità naturale che per l’uomo è in pari tempo sogno infranto e desiderio sempre rinnovato. Forse è per questa ragione, per lo stridente incontro tra ogni e qualsiasi “patria” e coloro che di quel suolo dovrebbero essere figli amati e fieri (mentre spesso le loro parabole, oscure o luminose che siano, sorgono e tramontano nella più gelida indifferenza, in una formale appartenenza geografica buona solo per l’aggiornamento di qualche dato demografico) che Vikram Seth ambienta il suo bellissimo romanzo-fiume Il ragazzo giusto (oltre 1.600 pagine, in Italia pubblicato da Longanesi nella traduzione di Lidia Perria) nell’immaginario stato del Purva Pradesh (e principalmente nell’altrettanto inesistente città di Bramphur), in un’India dunque che per quanto frutto di fantasia ha i caratteri perfettamente identificabili e nonostante ciò ancora incerti, ancora in formazione, ancora in divenire, di un viso a malapena sfiorato dalla luce, di un corpo fragile ancora sospeso tra respiro e oblio. Siamo al principio degli anni Cinquanta; gli orrori, le tragedie e gli stermini del secondo conflitto mondiali restano per tutti un’eco fortissima e raggelante, tuttavia la voglia di rinnovamento, di felicità e ricchezza è altrettanto universale e il gigante indiano, da poco uscito vincitore nella battaglia combattuta contro i dominatori inglesi per la propria indipendenza, costruisce se stesso tra mille affanni confidando con l’ingenuità propria dei fanciulli nella paterna benevolenza del futuro.
L’India di Vikram Seth, letteraria e concreta, disegnata in pagina fin nei più minuti dettagli nella raffinata musicalità di una prosa lieve e potente, delicata nell’esplorazione dei sentimenti (il filo conduttore dell’intero romanzo è la scelta, da parte di una ragazza, Lata, della persona giusta da sposare, una scelta che lei vorrebbe non lasciare, come tradizione impone, nelle mani della madre e del resto della famiglia, ma compiere da sé) e dura, radicale, feroce persino nella denuncia di tutte quelle umane debolezze per le quali non esiste rimedio (splendide nella loro spietata chiarezza le pagine dedicate ai sanguinosi contrasti religiosi tra musulmani e indù di cui il Pakistan, altra scandalosa “novità” di quel periodo, rappresenta ancora oggi la più cocente sconfitta di tutto ciò che può dirsi nobilmente umano, così come indimenticabile è il climax drammatico che l’autore raggiunge nel momento in cui descrive una scena di isteria collettiva durante la sacra festa indù del Pul Mela, sulle rive sante del Gange, che lascia lungo le sponde del fiume migliaia di morti innocenti, pellegrini uccisi dalla calca impazzita di altri pellegrini in cerca di salvezza), esiste e cresce nella vita quotidiana di quattro famiglia, i Mehra, cui appartiene la protagonista indiscussa del lavoro di Seth, la giovane Lata, i Chatterji, i Kapoor e i Khan (musulmani questi ultimi). Unite tra loro da legami di parentela o d’amicizia, queste famiglie rappresentano altrettante voci di un mondo composito, contradditorio, sempre alla ricerca di un’identità stabile, dove male e bene, verità e menzogna, fedeltà e tradimento, generosità ed egoismo compaiono e scompaiono a più riprese non solo perché evocati dalle circostanze, ma soprattuto perché modelli, paradigmi, archetipi dell’umana natura, trama della coscienza collettiva di un Paese, qualsiasi sia il suo nome, qualsiasi sia la sua collocazione. Su una carta geografica o nella corposa mole di un libro splendido, che non si vorrebbe mai smettere di leggere.
Eccovi l’incipit.
“Sposerai anche tu un ragazzo scelto da me”, disse con fermezza la signora Rupa Mehra alla figlia minore.