Recensione di “Fisica della malinconia” di Georgi Gospodinov
“In questo romanzo il tema dominante della prima parte consiste in un’ipertrofica
espansione dell”io’ che, grazie a quella che viene diagnosticata al narratore come ‘empatia patologica o ‘sindrome ossessiva empatico-somatica’, si impossessa non solo dei ricordi, delle sofferenze e delle gioie dei nonni, dei genitori e conoscenti, ma anche di quelli di personaggi della mitologia, per estendersi sempre di più verso l’identificazione con tutto il creato, animali, piante e persino minerali […]. Con la fine dell’infanzia cessa l’empatia, che viene sostituita dal bisogno di un insaziabile accumulo di testimonianze e notizie di ogni tipo che il narratore raccoglie nello scantinato in varie casse […]. Archetipo del narratore è la Sharazad delle Mille e una notte che continua a raccontare per salvarsi la vita. Tra i temi centrali del romanzo troviamo quello del bambino abbandonato, la cui ipostasi è data dal Minotauro, vero e proprio alter ego del narratore, assetato di affetto materno e ingiustamente maltrattato da scrittori di varie epoche e dalla vulgata mitologica. Di qui il tema ricorrente del Labirinto, degli scantinati abitati dalla famiglia, dei corridoi laterali che immettono in memorie altrui. L’empatia infantile permette, usando con fantasia premesse di fisica quantistica, di essere allo stesso tempo la lumaca che il nonno ingoia viva per combattere l’ulcera e il nonno che la inghiotte […]. L’immedesimazione, in qualche modo panteistica, con tutte le creature e le cose è a sostegno di un dichiarato antiantropocentrismo; il sublime si nasconde ovunque“. Se è vero che l’immortalità è possibile solo nell’infanzia e che un ritorno all’infanzia è un’immortalità che ha il sapore dell’eterno ritorno delle stagioni, della ciclicità del tempo della natura, che alla morte sempre fa seguire il ritorno alla vita di ciò che ha appena finito di consumarsi, allora la sola chiave che può non solo aprire la porta dell’infanzia, ma che ha il potere di ritrovare quella porta e nuovamente spalancarla a decine, centinaia di anni di distanza dall’età della fanciullezza, è la parola, la parola che si fa storia, racconto, romanzo, architettura di frasi che si compone in vie, strade, case, palazzi, città mondi, che si smarrisce e di continuo ritrova se stessa nella perfezione sovrumana del labirinto, dove chiunque è prigioniero e al tempo stesso esploratore di un continente che non ha confini, che non cessa di sorprendere, di stupire, in una parola di essere come è la realtà per colui che, appena nato, continua a conoscerla come cosa nuova, risorta ogni giorno con un volto completamente diverso dal precedente. Ecco dunque che non per caso la bella postfazione di Giuseppe Dell’Agata al meraviglioso, raffinatissimo Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (Voland) si offre al lettore – che giunto alla fine del romanzo ha la sensazione che nulla sia finito e che le pagine appena sfogliate possano essere riprese dal principio e aprirsi a panorami mai visti prima, condurre a situazioni inedite, inaspettate (nessuna rilettura dunque, ma qualcosa di completamente differente da ciò che c’è stato prima) – come una sorta di incompleto filo d’Arianna.
Non v’è dubbio, infatti, che l’opera di Gospodinov (che è un romanzo nello stesso modo in cui non lo è) sia, tanto per tema quanto per struttura, un labirinto, o l’idea di labirinto, o ancora la forma platonica del labirinto, dunque l’essenza stessa di ogni possibile labirinto, e ciò comporta l’indispensabilità di un filo d’Arianna che permetta a chiunque di metter piede tra le parole dello scrittore bulgaro e di indovinarne il cammino, l’orientamento, l’intenzione, il fine; tuttavia, dal momento che in questo labirinto, a differenza di ciò che accade in quello dove rinchiuso trascorre i suoi giorni il Minotauro, non v’è posto per la morte (quella che al mostruoso prigioniero senza colpa infliggerà Teseo) ma soltanto per la vita, per la vita che fiorisce, per la vita dei bambini, la sola vita possibile, il filo, il filo della vita di Teseo e della morte certa del Minotauro deve essere di necessità incompleto, lasciare colui, coloro che entrano nel libro nel bel mezzo di cammino, consentire che alla certezza della via d’uscita adulta si sostituisca il gioco della scoperta del fanciullo. Nel letterario labirinto di Gospodinov, dove ogni presente, ogni futuro anela al passato, al ricordo, alla memoria, agli anni degli uomini che si riavvolgono su se stessi per tornare a quella giovinezza ricordata sempre più a fatica e che una miracolosa capacità empatica restituisce in tutta la sua forza come esperienza vissuta in prima persona (io sono il nonno che inghiotte la lumaca per curarsi l’ulcera e la lumaca inconsapevole che viene inghiottita, scivola lungo l’esofago accompagnata da un sentimento di stordita felicità per poi ritrovarsi nell’inospitale caverna dello stomaco, bersagliata dalla letale violenza dei succhi gastrici; io sono mio nonno bambino dimenticato all’età di tre anni da sua mamma, la mia bisnonna; il sono “il ciliegio gelato da una tarda neve d’aprile” e “la neve che ha gelato l’ingannato albero di ciliegie… Io siamo… Io fummo”) a emergere è un commosso omaggio a quello splendore senza nome che è la cifra di ogni giorno, invisibile a occhi da troppo tempo assuefatti a una luce le cui infinite sfumature non sanno più distinguere ma presente ai cuori di chi sa, da sempre e per sempre, che la luce, come i labirinti, come le storie, è in tutti i luoghi e in ogni tempo, inarrestable, immortale, infinita, inesplorata. “Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare. Ci siamo tutti? Allora andiamo avanti“.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Sono nato alla fine del 1913 come creatura umana di sesso maschile.