Recensione di “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault
Francia, 1757, Robert-François Damiens confessa pubblicamente i suoi crimini, poi
viene eseguito il terribile supplizio in cui consisteva la condanna che gli era stata inflitta. Damiens, condotto al patibolo che era stato appositamente allestito per lui, venne “tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso […] il parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti [tanagliati venne] gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente cera e zolfo insieme e […] il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento“. La descrizione di questi terribili atti “di giustizia”, tuttavia, per quanto accurata, non rende completa ragione di quanto avvenne davvero, perché l’opera di squartamento non si svolse senza difficoltà. L’azione infatti “fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando ancora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con la scure“. Meno di cent’anni più tardi dall’oscena morte di Damiens, Léon Faucher stila un preciso regolamento destinato ai ragazzi rinchiusi nella Casa dei giovani detenuti di Parigi. Il regolamento riporta, tra gli altri, i seguenti articoli: “Articolo 17. La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino d’inverno, alle cinque d’estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al giorno saranno consacrate all’insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove d’inverno, alle otto d’estate. Articolo 28. Alle sette e mezzo d’estate e alle otto e mezzo d’inverno, i detenuti devono essere riportati nelle loro celle, dopo il lavaggio delle mani e l’ispezione dei vestiti fatta nei cortili; al primo rullo del tamburo, svestirsi, al secondo mettersi a letto. Si chiudono le porte delle celle ed i sorveglianti fanno la ronda nei corridoi, per assicurarsi dell’ordine e del silenzio“. Al principio del suo Sorvegliare e punire (Einaudi, traduzione di Alcesti Tarchetti), saggio sulla nascita della società disciplinare e sulle tecnologie del potere di cui poco alla volta il carcere diverrà (per restarne ancora oggi) il fulcro – e con esso tutte le istituzioni di internamento, controllo e ordine attive nelle società attuali, ciascuna realizzata secondo caratteristiche ben precise e dotata di specifiche finalità, quali ospedali, caserme, fabbriche, scuole – Michel Foucault illustra i due poli opposti dell’apparato punitivo statale alle soglie della modernità.
Nel primo caso viene presentata una vera e propria vendetta, consumata dal potere assoluto nella persona del re, che in quanto sovrano rappresenta lo Stato tutto e dunque si considera personalmente attaccato (e offeso) da ogni crimine compiuto, perché ogni violazione delle leggi, che da lui emanano, è equiparabile a un tentato regicidio; nel secondo esempio, invece, si rappresenta un sistema sanzionatorio non dissimile da quello che tutti conosciamo, basato sulla reclusione, sulla privazione della libertà personale ma non soltanto, perché lo spazio chiuso porta con sé tutta una tecnica di controllo dei corpi (da attuarsi secondo una scansione ben precisa del tempo, sottratto al condannato e nella disponibilità totale dei suoi carcerieri) che altro non è se non il primo passo di più articolate e approfondite forme di sorveglianza (e tutela), che giungeranno a una sempre più approfondita conoscenza (e appropriazione) delle persone sottoposte alle procedure di correzione (si pensi per esempio alla “trasparenza” pressoché totale dei ricoverati in ospedale, di cui è bene sapere ogni cosa al fine di assicurare loro le cure migliori, ma il cui privato, trasformato in una serie apparentemente neutra di dati “a disposizione del personale medico”, di fatto non ha più nulla di privato, di appartenente soltanto a ciascun individuo, a ciascun paziente considerato nella sua singolarità).
Dall’orrore quasi insopportabile dei supplizi al ripensamento delle pene, dalle procedure di incarcerazione all’esercizio della docilità applicato ai corpi (e di conseguenza alle menti) nella studiata ginnastica disciplinare messa in atto negli eserciti, dall’idea dell’osservazione continua intesa come strumento per assicurare un’effettiva (e non importa quanto estrinseca) moralità dei costumi – esemplari in questo senso le pagine dedicate al Panopticon, “struttura perfetta” di Bentham – fino all’ultima parte del volume espressamente dedicata alla prigione, la cui realtà, scrive Foucault, “è meno recente di quanto si affermi quando la si fa nascere con i nuovi Codici” – lo studio del filosofo francese disegna un’archeologia dei dispositivi di potere illuminando l’essenza della sua metamorfosi: da palcoscenico principale sul quale la legge, in tutta la sua inflessibilità, si manifesta al popolo “educandolo” attraverso l’esempio delle torture più spaventose, a invisibile meccanismo di sapere e guida che agisce per la società tutta e non semplicemente, e in negativo, a danno dei suoi elementi ingovernabili. L’individuo”, scrive Foucault, “è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione ‘ideologica’ della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama ‘la disciplina’. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi […]. In effetti il potere produce: produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione“.
Eccovi l’inizio del saggio. Buona lettura.
Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a “fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi”.