Recensione di “Revolutionary Road” di Richard Yates
“La trama di Revolutionary Road può essere riassunta in poche frasi. Siamo nella
primavera-estate del 1955: nella zona residenziale di Revolutionary Hill, nel Connecticut occidentale, la vita della giovane famiglia Wheeler – April, Frank, due bambini piccoli – viene profondamente ed essenzialmente sconvolta, per non tornare mai più come prima. A un passante occasionale, la vita dei Wheeler potrebbe sembrare non dissimile da quella dei loro vicini; i loro divertimenti e i loro crucci, quelli prevedibili, alla loro portata: la partecipazione alle recite della filodrammatica locale, cenette alcoliche con altri vicini di simili vedute, il placido andirivieni del treno dei pendolari, il conforto di essere in maniera non ben definita parte della cultura, pur mantenendo solidamente il controllo delle scelte fondamentali della vita; e – meno allegramente – una esangue incapacità di tenere alla larga le frustrazioni del trascorrere della giovinezza, la fatica della routine sul lavoro, le complicazioni che nascono dal tentativo di conservare la vita interessante e vigorosa pur mantenendo intatta l’unità del nucleo familiare. Ma nella vita dei Wheeler entrano molte cose niente affatto positive, ancher se nessuna di queste calamità sembra tanto eccezionale da rendere insuperabile il tutto. Purtroppo Frank e April nutrono scarso affetto l’una per l’altra. Entrambi detestano la vita borghese e se ne lamentano troppo. I bambini portano con sé i soliti fastidi. Il lavoro di Frank in città è, come ammette lui stesso, ‘il lavoro più cretino che si possa immaginare’. E April, che non ha un granché da fare, fa pubblicamente fiasco, e in maniera imbarazzante, come attrice dilettante. Per giunta i Wheeler bevono troppo, i vicini li annoiano a morte, hanno un vago timore di essere stereotipi viventi e, di conseguenza, vedono il loro futuro indistinto ma tutt’altro che promettente“. Basterebbe prendere, dalla profonda e potente prefazione di Richard Ford, l’osservazione, a prima vista quasi superflua, sulla trama di Revolutionary Road, splendido e tragico romanzo d’esordio di Richard Yates (Minimum Fax, traduzione di Adriana Dell’Orto), fin troppo facilmente riassumibile, per avere tra le mani la miglior chiave di lettura possibile di una storia la cui complessità e radicalità sono inversamente proporzionali ai puri e semplici “ingredienti narrativi” necessari a costruirla. Perché è senz’altro vero che se si volesse guardare solo a quel che succede questo lavoro non porterebbe via più di qualche minuto di spiegazione – il naufragio, terribile sì ma in buona misura voluto, cercato persino, di una famiglia incapace di accontentarsi di quel che ha, che non è poco – tuttavia è altrettanto vero che limitarsi a osservare “solo quello che succede” significherebbe, né più né meno, non aver compreso nulla di questo libro, come se non lo si fosse letto.
Tutto quel che accade, infatti, scaturisce dalle personalità dei protagonisti (i giovani coniugi Wheeler in primo luogo, poi i loro amici, la fin troppo garbata agente immobiliare responsabile di aver venduto loro la casa di Revolutionary Road nelle cui stanze, senza soluzione di continuità, accade tutto ciò che deve accadere come il suo opposto, e, non ultimo, suo figlio, forse l’unico uomo libero ad aggirarsi in quella impalpabile prigione di buone maniere, riti abusati e indispensabili menzogne che è tragica replica dell’organizzata finzione dello spettacolo tetrale – non a caso quello che apre il romanzo – che ha visto il fallimento, in qualche modo definitivo pur non essendo che il primo, di April), i quali, come topi in un labirinto, si affannano in cerca di una via d’uscita inesistente, impossibile. Da una parte, dunque, i Wheeler, ostinati e patetici nel loro rifiuto “concettuale”, metafisico, della vita che vivono, quasi che l’unico modo per sopportare il peso di una famiglia e delle sua necessità sia far mostra di considerarla qualcosa di superfluo, che può forse avere a che fare con la mera esistenza biologica, non certo con ciò che essa significa davvero (e cosa mai significherà davvero?), dall’altra i loro vicini di casa e amici, un’altra coppia nella quale April e Frank si vedono ritratti come in uno specchio e per questo respingono, pur sforzandosi di non darlo a vedere (non troppo, almeno). Anche qui non mancano le tensioni, anche qui infelicità e frustrazioni serpeggiano, anche qui il sentimento prevalente è una sorta di rimpianto cieco, qualcosa che somiglia a nostalgia per un tempo malamente sprecato ma che se tornasse verrebbe gettato al vento allo stesso modo, perché colpevole non è il tempo ma esclusivamente l’uomo che non lo sa plasmare, o meglio che non riesce a modellare se stesso, che non sa farsi artefice e il cui destino è nascere e morire sconfitto; ma tutto questo sentire, rispetto a quello degli Wheeler, che deflagra in un dramma dove nessuna salvezza è possibile, è fuori fuoco, sfumato, indistinto; risuona sì, ma come un’eco lontana, prossima a spegnersi, come se questi amici, così anonimi agli occhi di April e Frank, avessero già esplorato il labirinto da cima a fondo giungendo all’inevitabile conclusione. Dall’altro ancora la signora Givings, agente immobiliare il cui scudo al dolore è un sorriso immarcescibile condito da una cortesia formale di impeccabile precisione; la vita può essere una stretta di mano che suggella un affare andato in porto, un the caldo che ristori corpo e mente dopo una lunga giornata di lavoro, una conversazione non impegnativa (ma quanto rilassante!) sulla bellezza di un giardino privato che prende forma poco alla volta. Se la vita può essere questo, e se questo può essere misericordia, per quanto avara, perché non accettarla? La moneta che tintinna ai piedi del povero è denaro, in fondo, anche se il mondo, sprezzante, la chiama elemosina. E infine, figura di sfondo eppure centro di gravità dell’intero romanzo, John, il figlio della signora Givings, anzi il figlio pazzo della signora Givings (dove pazzo è la leva che solleva ogni cosa per poi scagliarla a terra), il solo tra tutti ad avere il coraggio di guardare il desolante spettacolo di uomini e donne perduti, vinti, spenti e a possedere le parole per descrivere ogni cosa. Parole che è compito dei farmaci e dei centri specializzati nella cura delle malattie mentali rendere inoffensive.
Fredda, cruda, implacabile, la luce che emana da questo capolavoro della letteratura è quella che ogni libro dovrebbe portare in sé; quella della verità, dell’autenticità. Se esistono libri indispensabili (e chi scrive è convinto che, per nostra fortuna, ne esistano), Revolutionary Road è senza dubbio uno di questi.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
L’ultima eco della prova generale si spense, e gli attori della Compagnia dell’Alloro si ritrovarono senza altro da fare che starsene lì, silenziosi e smarriti, a guardare oltre le luci della ribalta verso una platea deserta, battendo le palpebre; osavano appena respirare, mentre la figura tozza e solenne del regista emergeva tra le nude sedie per raggiungerli sul palcoscenico e dalle quinte tirava fuori, trascinandola rumorosamente, una scala doppia, vi saliva fino a metà, e da qui si voltava e gli diceva, raschiandosi più volte la gola, che erano tipi maledettamente in gamba e che era proprio un piacere lavorarci assieme.