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L’abito sbagliato


Recensione di “Nero come la notte” di Tullio Avoledo

recensione - tullio avoledo - nero come la notte
Tullio Avoledo, Nero come la notte, Marsilio

 

Una utopia negativa che di utopico non ha nulla, perché il suo “non luogo” semantico e

d’elezione è una realtà fisica e geografica ben precisa, una cittadina (una qualsiasi, il lettore individui quella che più gli aggrada) del ricco, industriale e industrioso nordest italiano dove trionfante governa – ma forse sarebbe più esatto dire spadroneggia – una politica che ha nel razzismo più becero e in un’ideologia securitaria tanto rigorosa quanto miope le proprie caratteristiche distintive. Una utopia negativa che prende corpo nell’attualità, in un oggi che non fatica a rispecchiarsi in questo domani che già bussa alla porta e che sembra contagiare tutto e tutti, quasi fosse un’epidemia. Questo il quadro, studiatamente cupo, nel quale Tullio Avoledo ambienta il suo crudele Nero come la notte (Marsilio), romanzo che l’autore si sforza in ogni pagina di impugnare e utilizzare come fosse un’arma, con la precisa, deliberata intenzione di scuotere, lasciare il segno, traumatizzare persino. Non esiste innocenza nel microcosmo (che tuttavia non ha confini distinguibili; l’angolo d’Italia in cui il dramma si consuma è potenzialmente il Belpaese intero, nel quale di bello, in verità, sembra essere rimasto ben poco) costruito da Avoledo, per questo tutti coloro che, per scelta o per forza, lo abitano o lo subiscono, sono colpevoli, o se si preferisce dannati, perché la loro provincia sembra davvero un inferno dei vivi. Lo scrittore friulano, che chi scrive ha molto apprezzato per il brillante L’elenco telefonico di Atlantide, sembra guardare alle cupe atmosfere di Hervé Le Corre, alla sua umanità derelitta e vinta, dove tuttavia resiste una sorta di eroismo oscuro, estenuato eppure non domo, dove il male, per quanto profondo possa essere, non rischia mai di incagliarsi in secche di banalità e luoghi comuni, ma il risultato che raggiunge in questo lavoro, comunque insignito, nel 2020, del Premio Scerbanenco, è deludente.

Sono troppe, infatti, e quel che è peggio tutte scontate, le denunce che Avoledo affastella nelle oltre 500 pagine del romanzo, e se è senz’altro possibile sostenere, a parziale giustificazione dell’autore, che è bene ripetere più e più volte ciò che sembra essere universalmente noto – a partire dal razzismo ignorante e radicale che una certa Italia a bella posta culla e spregiudicatamente utilizza a fini elettoralistici, mentre un’altra parte non si stanca di sbandierare credendosi portavoce di un’idea dalla quale invece viene manipolata – ma che in realtà si è ben lontani dal conoscere, e soprattutto dal capire, non si possono giudicare benevolmente personaggi (l’ex poliziotto Sergio Stokar, assoluto protagonista della storia, in testa) le cui posizioni, esasperate fino all’eccesso, finiscono per far affondare nel grottesco, e in ultima analisi nel ridicolo, quel che dovrebbe restare drammatico, per non dire tragico. Perché di tragedie il romanzo di Avoledo è pieno. La morte è ovunque, ed è sempre una morte raccapricciante; ci sono squartamenti, amputazioni, ci sono vittime torturate in modi terrificanti prima di venire eliminate, e sono quasi sempre ragazze giovani quando non giovanissime, vite spezzate con un intollerabile, inaccettabile ferocia. E Stokar, la cui esistenza naturalmente è naufragata da un pezzo, deve fare luce su questo mistero di sangue nel quale non mancano pornografia (raccontata per filo e per segno, come se oggi, con la Rete a disposizione, la cronaca di un filmato a luci rosse potesse fare qualche effetto; Avoledo sa scrivere, non c’è dubbio, ma proprio per questo ci si aspetterebbe che mettesse la propria prosa al servizio di qualcosa di più solido), abbondanti dosi di turpiloquio fini a se stesse (imbarazzante la trovata dell’anziana insegnante di lettere classiche di Stokar la cui sindrome di Tourette la porta a raggiungere vette di gratuita volgarità che alla lunga ottengono solo l’effetto di venire a noia), doppiogiochisti, vittime che in realtà sono carnefici e carnefici che inevitabilmente finiscono per essere vittime, stranieri privi di scrupoli, calcolatori e vendicativi, che affidandosi solo alla loro volontà di ferro hanno “fatto carriera” diventando più italiani degli italiani e integrandosi nel tessuto marcio della società a suon di malaffare, corruzione naturalmente omicidi (e se non è un luogo comune questo…) e infine capitani d’industria di specchiati natali e immacolata cittadinanza, bianchi e italiani che più italiani non si può il cui unico scopo nella vita (raggiunto, si può forse dubitarne?) è dominare, occupare la sommità della piramide sociale, economica, politica. A qualunque costo.

Il gioco al massacro di Nero come la notte è un cortocircuito di orrori che alla fine, purtroppo, non porta a nulla (sullo scioglimento dell’enigma è preferibile sorvolare) perché il j’accuse che dovrebbe renderne ragione sconcerta tanto per debolezza argomentativa (in questo senso la figura del giornalista Lorenzo Vidal, forse l’unico vero amico di Stokar, è emblematica) quanto per profondità d’analisi (inesistente o quasi). Si dirà, ma questo è un romanzo, è un noir. E sia. Ma allora perché vestirlo anche d’altro? E perché vestirlo così male? Peccato. Resta intatta la stima per Tullio Avoledo; si criticano coloro da cui ci aspetta molto, non quelli da cui non si pretende nulla.

Eccovi l’incipit.

Lo Zingaro spense il motore della Mercedes Classe S.

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