Recensione di “Il rosso vivo del rabarbaro” di Audur Ava Ólafsdóttir
Dimora può essere un affastellarsi di piccole cose, cose che può apparire inutile (o se si
preferisce superfluo) raccontare e che pure possono essere dette. E se si può dirle, perché tacerle? Dimora, d’altro canto, può essere anche qualcosa di grande, d’enorme perfino, che coinvolge tutto, stravolge ogni cosa. Dimora, per esempio, è una guerra; dimora tuttavia è anche un giorno, un giorno qualsiasi, un giorno come tanti e nel medesimo tempo differente da qualunque altro, passato o futuro (malgrado di questa differenza non ci sia modo di accorgersi). Dimora dunque. Luogo d’elezione, di significato, luogo in cui le cose trovano una loro ragion d’essere, forse non il loro preciso senso, ma del resto, a chi è dato conoscere così profondamente qualcosa? Forse solo a Dio, sul cui conto ciò che sappiamo è davvero poco. E dimora, di un pugno di esistenze in un villaggio islandese affacciato sul mare, dove gli uomini vivono per gran parte del tempo lontani da casa e le donne, sorta di vedove bianche le cui infelicità sfarinano nelle fatiche quotidiane, nei legami d’amicizia femminile, nelle consolidate relazioni di buon vicinato e in occasionali tradimenti che altro non sono se non cura del proprio corpo e delle sue necessità, è la delicata, lieve prosa di Audur Ava Ólafsdóttir che nel suo romanzo d’esordio, Il rosso vivo del rabarbaro (Einaudi, traduzione di Stefano Rosatti), narra di un esistere marginale, dove in qualche misura i confini geografici del mondo, l’assoluta particolarità di una terra inondata per mesi interi da una luce quasi spietata e poi immersa, per un tempo lunghissimo, nell’ostinazione di una notte perenne, si specchiano nei caratteri, tranquilli e fieri, combattivi e fatalisti a un tempo, degli abitanti.
In questo minuscolo e ignorato scampolo di mondo lo sguardo della scrittrice islandese si concentra sull’adolescente Ágústína, concepita quasi di fretta nel bel mezzo di un campo di rabarbaro (che lì cresce ovunque ed è uno degli ingredienti principali della cucina) e, per quanto amata, lasciata sola tanto dal padre, che non ha mai conosciuto ma al quale non si stanca di scrivere lettere che affida alla benevolenza del mare, quanto dalla madre, trascinata dalla sua passione per l’ornitologia in giro per il globo. Ágústína cresce accudita da Nina, una donna anziana che le è madre senza esserlo davvero (ma quanto più le è madre della sua madre biologica, che da abissali distanze non si stanca di scriverle che l’ama), scendendo a patti con le sue gambe prive della forza per sorreggerla, sostituendo a quegli arti disobbedienti e traditori l’ausilio ortopedico delle stampelle e soprattutto la sua non comune forza di volontà e una dignità fatta di sogni da realizzare e conti da regolare con l’onnipresenza di Dio, fin troppo fanciullesca a volte, nella sua potenza cui nulla può opporsi. A dominare il villaggio è una montagna alta più di ottocento metri; la sua presenza è una sorta di ossessione per Ágústína, che ha intenzione di scalarla, di raggiungerne la cima, di spingere lo sguardo al di là della sua cima. “Ti ci vorranno scarpe adatte, allora” commenta Nina, la madre che vive con lei, la sola che questa ragazza abbia mai avuto dall’istante del suo concepimento.
Romanzo di rara intensità, Il rosso vivo del rabarbaro è un piccolo, preziosissimo gioiello letterario, un racconto semplice e ricchissimo, dove a splendere è un’umanità che pare miracolosamente trattenere in sé una curiosa innocenza, sorta di inesplicabile immunità a un autoinflitto destino di annientamento.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Lo ha promesso più volte: non andrà mai da sola giù al molo. Con le stampelle è un attimo slittare sull’untume di pesce e finire in mare.