Recensione di “L’Adalgisa” di Carlo Emilio Gadda
Il dialetto milanese esibito nello stesso tempo con orgoglio e disprezzo; il primo
che rimbomba nell’offesa dignità di mogli ingiustamente (a detta loro) disprezzate dalle famiglie dei propri coniugi, che si gusta sulla lingua e sulle labbra come una sorta di codice segreto accessibile solo a persone che ci somigliano e alle quali a nostra volta somigliamo, persone con cui abbiamo in comune una geografia minuta, che dai ben distinti confini che delimitano ciò che è Lombardia da tutto quel che non lo è, va via via rimpicciolendosi e definendosi divenendo città (Milano), poi quartiere (il centro) e infine reticolo di vie (abitazione, o meglio serie di abitazioni). Il secondo destinato a coloro che, credendosi sempre e comunque migliori di noi (gli appartenenti a quella specie di “borghesia di sangue” meneghina che suona quasi come un’invenzione ma che pure rivendica il proprio esistere nella genealogia di famiglie di professionisti – avvocati, ingegneri, professori universitari… – la cui provata nascita milanese riverbera con i colori dell’aurora nell’ordinata sillabazione scolastica dei cognomi; Ca-vig-gioni, Ri-nal-do-ni, Ghi-rin-ghel-li, Ca-ve-na-ghi, Vi-go-ni), non perdono occasione per umiliarci, magari sbandierando in ogni momento i nostri umili natali superati a suon di sacrifici e rinunce, per farci sentire sempre e comunque estranei al mondo che, malgrado loro, nonostante la loro testarda opposizione, la loro guerra infinita combattuta a suon di sorrisi falsi e acidi pettegolezzi, abbiamo comunque conquistato. E quel mondo, il mondo fintamente incantato e vergognosamente falso, menzognero, della Milano (ricca e benestante) del primo Novecento, una Milano chiusa nei salotti eleganti, ridotta alle vie più note ancora attraversate da eleganti carrozze chiuse i cui passeggeri non intendono rinunciare al diritto di guardare dall’alto in basso, arricciando come di dovere il naso, le motorizzate volgarità moderne degli “arricchiti”, figli illegittimi di un tempo che cambia troppo frettolosamente, ai concerti e alle prime teatrali irrinunciabili, perché è in quei luoghi e in quelle occasioni che chiunque conti davvero incontra i propri “simili” (omaggiandoli e venendo come giusto omaggiato a sua volta), dipinge con superba eleganza e irresistibile ironia, Carlo Emilio Gadda nella raccolta di racconti L’Adalgisa (Adelphi, pubblicato in prima edizione da Le Monnier nel 1944).
Le storie che compongono questo libro, unite le une alle altre ma anche indipendenti, sono una collezione di lavori eterogenei. Due di esse il lettore le ritroverà in un altro capolavoro di Gadda, La cognizione del dolore, altre avrebbero dovuto andare a comporre un romanzo che non ha mai visto la luce; queste diversità, tuttavia, lungi dall’essere un difetto del libro ne rappresentano forse la maggior ricchezza. Lo sguardo di Gadda, infatti, sembra fissarsi su uno stesso obiettivo (uno specifico microcosmo sociale, economico ed etico) da una pluralità di posizioni, e il risultato che si ottiene da questo continuo mutamento di prospettiva è sì un disegno (come nelle dichiarate intenzioni dell’ingegnere-scrittore, che sceglie come sottotitolo del suo lavoro un inequivocabile Disegni milanesi) ma un disegno tridimensionale, nel quale emergono in tutta la loro risibile drammaticità personaggi-marionetta, pupazzi orfani tanto di un trascendente Dio-Mangiafuoco quanto di un significato immanente capace di dar forma a mesi e anni vissuti (sprecati) nella più assoluta inconsapevolezza. Sono i riti (tanto più importanti quanto più sono vuoti) a dominare le pagine dell’Adalgisa; le cene, gli incontri, le rappresentazioni, perché è solo negli occhi degli altri che ciascuno può trovare la propria parvenza di legittimità. Ed è esattamente qui che l’occhio onnipotente, sarcastico e perfido del narratore Gadda (o se preferite dell’artista Gadda, del disegnatore Gadda, che non crea ma si limita a restituire la realtà in tutto il suo meschino esibirsi), nei racconti e ancora più nelle meravigliose note che li corredano (e dove Gadda offre il meglio della sua floridissima prosa) che la finzione viene svelata e ognuno si ritrova inconsistente e privo del riparo, in sé comunque fragilissimo, della regalità. Dove nessuno è re, non v’è chi non sia nudo.
Forse mai come tra le pagine dell’Adalgisa, il riso che Gadda suscita ha un sapore amaro, forse mai come in questo libro, così affascinante e spietato, carnefici e vittime sono così prossimi gli uni agli altri da essere una sola, identica cosa.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Un’idea, un’idea non sovviene, alla fatica de’ cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e il lavoro è pieno di sudore e di polvere.