Recensione di “Il figlio dell’impero” di Francesca Sanvitale
Essere parte della Storia per nascita e nello stesso tempo, e per l’identica ragione, venirne
in qualche misura estromessi, viverla ai margini, in una posizione di secondo piano. Questo destino glorioso e terribile, nel quale gli affari di Stato, le guerre, i rapporti tra le nazioni, le ambizioni di sovrani e condottieri si mescolavano inestricabilmente agli affetti familiari, ai rapporti tra genitori e figli, alle gelosie tra fratelli, il più delle volte crudelmente divisi dai diritti di primogenitura, toccò a Napoleone II, figlio del grande Bonaparte, conquistatore d’Europa, Imperatore invincibile e idolatrato, e di Maria Luisa d’Austria. Venuto al mondo quando ancora l’astro del grande condottiero corso splendeva, insignito del titolo di Re di Roma, dunque abituato fin dai primissimi mesi di vita a essere considerato Maestà, Altezza Reale, il giovane Napoleone perderà ogni cosa a soli tre anni, quando un paese devastato dalla disfatta della Campagna di Russia e stretto d’assedio dagli eserciti nemici (quello inglese e quello dello Zar in testa) diverrà dapprima teatro di una fuga precipitosa e terribile (che si concluderà in Austria, alla corte di Francesco I, padre di Maria Luisa) e in seguito qualcosa di molto simile a un miraggio, a un illusione, o se si vuole a un ricordo che con ogni sforzo si cercherà di estirpare dalla memoria del ragazzo. Di questa vita, breve e tuttavia tormentatissima perché tutta giocata sulla negazione di una personalità (per la paura che ispirava agli avversari di Napoleone, Metternich in testa, la possibilità che il figlio, rivendicando i propri natali e tutto ciò che ne conseguiva, a partire dal trono di Francia e d’Italia, potesse nuovamente far precipitare nell’incubo della guerra un’Europa pacificata a carissimo prezzo) e sulla sua sostituzione con un’identità posticcia, frutto di manipolazioni continue, racconta in un dettagliatissimo romanzo storico che è anche un drammatico, spietato resoconto di quanto il sacrificio di un’infanzia sia con ogni probabilità la più crudele delle colpe di cui un uomo possa macchiarsi, Francesca Sanvitale ne Il figlio dell’impero.
In un perfetto gioco di rimandi temporali, il lavoro di questa talentuosa scrittrice (di cui mi permetto di consigliare anche il bellissimo Madre e figlia) si apre con uno sguardo ai grandi eventi: siamo alla fine di marzo del 1814 e Maria Luisa, così è stato deciso, deve fuggire dalla Francia. Non c’è che caos attorno a lei e al suo piccolo di soli tre anni, il Re di Roma che presto non soltanto non sarà più sovrano ma non potrà neppure più essere ste stesso, perché ciò che lo attende, nella dorata prigionia dell’Austria dove ad aspettarlo c’è suo nonno, il padre della madre che a più riprese si è rifiutato di venire in soccorso di Napoleone impegnato allo stremo nella difesa di una Francia ormai irrimediabilmente nelle mani dei nemici, è una nuova identità, quella di Franz Duca di Reichstadt, una persona mai esistita, da modellare come creta, per appropriarsi della quale il piccolo Napoleone dovrà dire addio al padre (che non riuscirà mai più a incontrare, e delle cui sorti, la breve resurrezione dei Cento Giorni, la disfatta definitiva di Waterloo, l’esilio a Sant’Elena e infine la morte saprà dai suoi precettori e solo nel modo in cui la corte asburgica e per primo Metternich riterranno conveniente), accettare un rapporto discontinuo e carico solo di umiliazioni, delusioni e frustrazioni con la madre, che nominata duchessa di Parma visse la più parte del tempo in Italia, lontana da lui, costruendosi un’altra famiglia che per lungo tempo rimase ignota a Franz, e soprattutto rinunciare, poco alla volta volta ma inesorabilmente, a tutte le persone (francesi) che si erano sempre prese di cura di lui, e che in lui mai avevano cessato di vedere il figlio del loro imperatore e il Re di Roma. Francesca Sanvitale lascia che a narrare siano le voci ferme e pacate (ma solo perché distanti) dei documenti ufficiali, delle memorie personali, delle lettere intime, ma anche quelle esaltate e magniloquenti dell’arte, dei dipinti eseguiti su commissione, delle architetture che dovevano mostrare al mondo i trionfi ottenuti sui campi di battaglia, e quel che in questo modo finisce per offrire al lettore è una ricostruzione d’ambiente straordinaria per profondità e precisione. Ogni personaggio emerge per intero dalle proprie azioni, dalle proprie scelte, ed è a un tempo singolare e spaventoso vedere come, in un quadro di generale fissità, dove i protagonisti sono poco più che un fedele calco del proprio tempo, delle sue regole sociali, della sua moralità squadernata con la stessa pedante precisione di una disposizione di polizia, spicchi con drammatica evidenza, per contraddizione, per una sorte di oscura, spiacevole, disturbante eccentricità, per quella che oggi potremmo senza dubbio chiamare schizofrenia indotta, un giovane Napoleone bellissimo in volto eppure anonimo, impossibilitato a essere Bonaparte e ostinatamente deciso, al di là di ogni strategica dissimulazione, a non divenire un Asburgo.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Elzelina van Aylde Jonghe, amante del maresciallo Ney, il 29 marzo del 1814, si trovò a essere testimone di un fatto eccezionale: lasciava le Tuileries l’Imperatrice Maria Luisa, moglie di Napoleone e figlia di Francesco I d’Asburgo, insieme al suo bambino, il piccolo re di Roma che aveva compiuto da pochi giorni tre anni. Non lo sapeva ancora ma abbandonava Parigi per sempre.