Recensione di “Trilobiti” di Breece D’ J Pancake
“Ho incontrato per la prima volta Breece Pancake nella primavera del 1975, all’incirca cinque
anni prima che si togliesse la vita. Era alto, spigoloso, leggermente ricurvo. Aveva l’aria di uno che ha fatto lavori pesanti. Ai tempi insegnava letteratura inglese alla Fork Union Military Academy. Alle dieci mandava a dormire gli studenti e poi rimaneva a scrivere fin dopo la mezzanotte, per poi svegliarsi alle sei, come loro. Un giorno si presentò nel mio ufficio all’Università della Virginia e mi chiese di dare un’occhiata ad alcuni suoi racconti. Il primo era molto buono, e risultò il migliore tra quelli vecchi. Forse stava tastando il terreno prima di sottopormi i lavori più recenti. Mi chiese di leggerne altri, e per fortuna dissi di sì. La serie successiva era eccezionale […]. Breece aveva frequentato la Marshall University, a Huntington, nel West Virginia, ma ciò che colpiva della sua conoscenza e della sua tecnica era quanto avesse imparato da solo. Doveva averci lavorato parecchio fin da ragazzo, Aveva un senso profondo delle cose […]. Non ho mai conosciuto nessuno che lavorasse tanto sullo stile […]. Non aveva ancora compiuto ventisette anni quando morì. Io ne avevo quaranta. Ma per buona parte del tempo si era rapportato a me (e io a lui) come se fossi stato un fratello minore. Il resto del tempo mi trattava come un superiore di uno dei suoi eserciti immaginari: sapevo ciò che dovevo sapere, e avevo i miei gradi, ma era lui a doversi prendere cura di me […]. Breece era un amico fidato e instancabile […]. Breece non sapeva quanto fosse bravo; non sapeva quanto fosse colto; non sapeva di essere un cigno e non un brutto anatroccolo. A poco a poco stava superando questo ostacolo, ma nella sua quotidianità c’era sempre un certo scoramento da outsider, la sensazione che all’università non fosse il benvenuto […]. Ripenso a tutto quel che ho imparato da lui. E credo, con una certezza che è più di una speranza, che i suoi problemi non riguardino più lui né chi si è scontrato con lui o gli ha voluto bene, e che buona parte di ciò che aveva ricavato dai suoi tormenti rimane”. La prefazione di John Casey a Trilobiti di Breece D’ J Pancake (Minimun Fax, traduzione di Cristiana Mennella, con un ulteriore testo introduttivo di Joyce Carol Oates), racconta di uno scrittore dal talento purissimo, uno scrittore che di Casey fu allievo ma prima di tutto amico, compagno, e che egli conobbe e comprese, al di là dell’assidua frequentazione personale, dal doloroso splendore delle sue pagine, dalla sua prosa indimenticabile, ridotta all’essenzialità della disperazione, quando, caduto ogni possibile velo illusorio o di speranza, al pensiero non rimane che il confronto aspro con una realtà che non lascia via di scampo, possibilità di fuga. L’America profonda, depressa, nata sconfitta, emarginata, stanca e violenta quasi per noia, per assenza di alternative, disegnata dalla natura indifferente del West Virginia, è il luogo nel quale i personaggi di Pancake, esistenze marginali, cresciute a sacrifici e privazioni e destinate a un oblio che già li inghiotte giorno dopo giorno, malgrado i loro sforzi, la fame d’amore, il sogno proibito, vertiginoso, di una possibilità, una soltanto, una in una vita intera, trascinano se stessi in cieche orbite ellittiche che richiamano la spaventosa violenza inflitta agli animali in gabbia, costretti dalla carenza di spazio a un unico movimento sempre identico a se stesso, che del movimento autentico è la più radicale negazione.
Torna con prepotenza alla mente, leggendo Pancake, quell’ineluttabilità (che ha carattere e onnipotenza divina) che la tragedia greca ha donato al mondo; il destino tragico di Edipo che si compie proprio perché egli, pensando di sfuggirgli, diviene primo e prencipale strumento della sua realizzazione; l’amorosa devozione di Medea che circostanze avverse mutano in uno spietato spirito di vendetta; l’uccisione di Agamennone che scatena la più terribile delle persecuzioni. Allo stesso modo dei protagonisti della tragedia classica, gli sconfitti di Pancake sono legati a se stessi da qualcosa di più grande di loro: una terra che non offre nulla se non l’umiltà di lavori spesso senza futuro, padri per i quali la parola eredità ha un unico significato, quello della meccanica sostituzione di un uomo, ormai troppo vecchio per la fatica quotidiana o morto prematuramente, con uno più giovane (al modo in cui l’esausto radiatore di un’auto viene rimpiazzato da un altro radiatore in condizioni leggermente migliori), mogli per le quali il matrimonio è un ricordo da affogare nell’alcol, nella droga o, più spesso, nell’agognata anestesia di svogliati tradimenti. Quel che resta alla fine non è che desolazione, un presente che ha i colori stinti del passato – “Vedo le cicatrici di quando mi sono scorticato mentre agganciavo il disco o l’erpice al trattore; sono uguali alle cicatrici di mio padre” – un tempo fermo che è maledizione d’eternità.
Scrive Joyce Carol Oates: “Pancake empatizza a tal punto con la gente della sua terra disgraziata che si rimane travolti dai loro destini, così diversi ma sempre tragici, e affranti dal dato di fatto irreversibile che il percorso di un giovane autore dal talento unico si sia interrotto con il suo primo libro“.
Eccovi l’incipit del primo racconto, che dà il titolo alla raccolta. Buona lettura.
Apro lo sportello del camioncino, smonto sulla stradina di mattoni.