Recensione di “Ragtime” di E.L. Doctorow
Agli occhi dell’Europa, la vita degli Stati Uniti d’America è paragonabile, per durata, a quella di
un fanciullo: un paio di secoli di storia non particolarmente complessi né straordinariamente ricchi di avvenimenti di rilievo, una guerra fratricida durata poco meno di un lustro e nulla più. Agli occhi dell’Europa l’America è una sorta di eterno ragazzo, cresciuto, se di crescita, di maturità, è davvero lecito parlare, più per forza d’inerzia che per volontà propria. Eppure, nelle pieghe di questa storia tanto semplice da apparir banale e così breve da non meritare, se non il nome stesso di storia, di certo l’iniziale maiuscola di tanto nobile nome, è esistito un tempo nel quale sembra che ogni cosa sia successa proprio negli Stati Uniti, che l’America, probabilmente senza neppure accorgersene, si sia trasformata nel centro nevralgico, nel cuore di tutti gli accadimenti, grandi e piccoli, che in un modo o nell’altro hanno costruito quello cui allora si guardava come al futuro è che oggi è, nello stesso tempo, il nostro passato più recente, il presente in cui siamo immersi e perfino il futuro prossimo che ci attende. Questo tempo, questa parentesi unica nella curva dei secoli, questa particolarissima eccentricità capace di mutare l’orbita ellittica dei giorni e delle notti in un andamento privo di regole dove luce e buio non sono che sequenze fotografiche prodotte da un incessante sbattere di palpebre, sono i primi decenni del Novecento. Ed è qui, in questo rifugio che la storia, anzi le storie, paiono aver trovato quasi per caso e dove hanno deciso di fermarsi, di arrestare la loro corsa verso il domani per riprendere fiato, anzi per essere fiato e raccontare e raccontarsi al resto del mondo e così dare vita, donare una nuova nascita, un nuovo presente a quell’immensa, impressionante platea di spettatori non paganti e non coscienti formata dal popolo americano e da tutti gli altri popoli della Terra, che il grande scrittore americano E.L. Doctorow ambienta Ragtime (Mondadori, traduzione di Bruno Fonzi), il suo romanzo-capolavoro. La storia dell’America così come la conosciamo e di tutte le altre Americhe che punteggiano il nostro pianeta ha inizio nel 1902, nell’elegante casa di una benestante famiglia di New Rochelle, sobborgo di New York, ed è una storia che subito, dall’ambiente chiuso e sicuro di “un edificio di tre piani in legno scuro, con abbaini e bovindo, e una veranda con la zanzariera”, si allarga all’attualità, alla cronaca, alla realtà che sembra incapace di essere ciò che è senza l’immaginazione, o meglio, senza la traduzione dell’impossibile nel possibile, di più, nel vero, nell’autentico, che un uomo come Harry Houdini di continuo offriva alle sconvolte, strabiliate, adoranti schiere dei suoi ammiratori (come all’impotente, sterile incredulità dei suoi detrattori).
Ed ecco comparire, quasi in risposta alle sfide sempre più estreme lanciate da Houdini a tutto e a tutti, altre figure che la storia e le storie d’America e del mondo hanno realmente contribuito a scriverle, quasi che tutti si fossero dati appuntamento lì, nella terra ancora in qualche modo vergine al di là dell’oceano per restituire, rinnovato, il pianeta intero a se stesso: Sigmund Freud e il suo penoso fardello di umanità denudata e patetica, perduta in un’eterna fanciullezza di miseria morale e di furiosa, cieca deprivazione affettiva; Emma Goldman, anarchica mai doma impegnata a regalare agli uomini l’equivalente rivoluzionario del prometeico dono del fuoco, che Zeus punì così severamente: l’orogoglio della coscienza di classe; e ancora il magnate J.P. Morgan, ossessionato dalla sola cosa che le sue impressionati fortune non erano in grado di assicurargli, una vita altra, ulteriore, intoccabile ma non irraggiungibile che gli garantisse che la sua vita vissuta altro non era che un abito di cui liberarsi senza preoccupazioni a serata finita, perché all’indomani ce ne sarebbe stato un altro pronto per essere indossato; Henry Ford, chiamato a fare, in nome del dio della prosperità e del benessere, di quegli stessi uomini che Emma Goldman non si stancava di arringare, ingranaggi senz’anima di un’immensa, inarrestabile, immortale catena di montaggio priva di confini, Evelyn Nesbit, santificata e maledetta dalla sua bellezza.
In questo continuo travestirsi della storia, che Doctorow narra con la torrenziale abbondanza di un flusso di coscienza, quasi raccogliesse le cose al momento del loro farsi, assistesse alla miracolosa scintilla della nascita e la porgesse, intatta, nella perfezione, altrettanto miracolosa, di una lingua creatrice, l’inserirsi dell’elemento squisitamente romanzesco, l’invenzione di due figure (che si riveleranno centrali nell’intreccio), un immigrato ebreo originario dell’Europa orientale con una figlia a carico e un pianista jazz di colore vittima di una grave ingiustizia di stampo razzista, riportano il farsi del mondo alla tragica imperfezione, tutta umana, dei torti, dei soprusi, delle umiliazioni subite e delle vendette messe in atto.
Affresco splendido e travolgente, che si legge d’un fiato, Ragtime è un’opera d’eccezionale valore letterario, un romanzo indimenticabile, uno scrigno colmo di tesori, un sogno dal quale non ci si vorrebbe mai destare.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Nel 1902 Papà costruì una casa in cima alla salita di Broadview Avenue, a New Rochelle, New York.