Recensione di “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg
Vivere la tragedia senza esserne travolti; farne parte, subirla, sopportarla,
affrontarla, combatterla, resisterle e nello stesso tempo restarne in qualche modo distanti, godere di una sorta di miracolosa, ancorché imperfetta, intangibilità, in forza della quale le ferite inflitte finiscono per rivelarsi poco più che superficiali tagli, o graffi, laddove altri, moltissimi altri, vengono colpiti a morte. Vivere la tragedia, viverla in prima persona, da bersaglio, patirla per un’unica, semplice, folle e inevitabile ragione, essere ciò che si è e non si può evitare di essere, eppure uscirne in qualche modo indenni, e dunque vivi, quando la sorte di migliaia, di milioni di altri è l’annientamento, spesso atroce. Lessico famigliare di Natalia Ginzburg si può leggere così, come un romanzo in equilibrio su una contraddizione che non esce mai allo scoperto e che tuttavia si respira a ogni pagina, quasi a ogni riga; contrastata certo da una prosa leggera, a tratti persino pericolosamente fatua, giustificata solo in minima parte (o forse addirittura per nulla) dall’apparente assenza di responsabilità di ricordi fanciulleschi, infantili, immaturi come possono esserlo i sogni a occhi aperti quando paragonati alle asprezze del reale, ma sempre presente, incombente addirittura, e minacciosa e cupa. Nell’infinita galleria di opere letterarie dedicate all’abisso fascista mussoliniano, all’oscenità delle leggi razziali e alla persecuzione degli ebrei che di quella barbarie pateticamente travestita da “nuova scienza” e “nuova etica” fu diretta conseguenza, l’opera di Natalia Ginzburg (Premio Strega 1963) è tanto un quadro tra gli altri quanto (e forse soprattutto) un’eccezione che merita un posto a sé, un angolo appartato dove respirare sola e sola farsi leggere, studiare, meditare; sola parlare in quella sua lingua unica, fatta di strani incantesimi popolari, di strambi detti dono di generazioni sepolte e quasi del tutto dimenticate (se non fosse proprio per quei modi di dire, replicati anche nell’intonazione, nella modulazione della voce, nell’accompagnamento gestuale, nelle posture dei corpi), di giochi comprensibili soltanto a coloro che sono ammessi a parteciparvi. Ecco, è la lingua, la lingua di una famiglia ebrea benestante di Torino (e solo ed esclusivamente di quella famiglia, e di coloro che l’hanno conosciuta, frequentata, e con la quale hanno diviso ogni cosa), la lingua di padri, madri e figli, fratelli e sorelle, ma anche di amici, amanti e sposi, e dentro la lingua il lessico, e cioè un ben determinato parlare, un dire che si fa esattezza di significato solo per coloro che quel dire intimamente condividono, la chiave d’accesso, che del resto Natalia Ginzburg immediatamente consegna al lettore, di Lessico famigliare. Ed è a quella lingua, e alle sue espressioni soltanto (come se si trattasse di un film che dovrebbe avere sottotitoli ma per il quale non è previsto alcun sottotitolo, perché l’ascolto, un ascolto partecipato, attento, basta per comprendere tutto ciò che c’è da comprendere e soprattutto per accettare che non ogni cosa debba essere spiegata, che non v’è necessità di un disvelamento totale perché nessuna verità e mai data per intero) che di continuo si ritorna per dotare di senso, dell’unico senso possibile, una quotidianità ogni giorno più insopportabile e feroce, morsa da guerra, miseria, clandestinità forzate, fughe rocambolesche, e naturalmente perdite, spaventose, terribili emorragie d’affetti.
La prosa di Natalia Ginzburg dà l’impressione di raccontare tutto questo come se lo vedesse da lontano, come se non le appartenesse veramente, come se invece di essere una giovane ebrea fosse una persona che nulla ha da temere dalla dittatura fascista, ma il suo distacco da tutto questo, la sua presa di distanza da quella che è a tutti gli effetti la carne viva del suo romanzo è per l’appunto illusoria; l’autrice vive con piena coscienza ogni dramma e sulla pagina lo restituisce intatto, solo che a pagare il prezzo delle sciagure non è la lingua, non è la salvezza del dire, non è la parola perché alla parola, affinché le sia possibile salvare qualcuno nell’impossibilità di salvare tutti (e non a caso i romanzi sul fascismo e ancor più quelli sull’incubo genocida nazista partiranno da una prospettiva opposta rispetto a quella assunta dalla Ginzburg, ragionando sull’eredità del nazionalsocialismo, sull’ineliminabile peccato della sua esistenza che perennemente ricadrà sui posteri, senza soffermarsi non tanto su quel presente ma in quel presente, e vivendolo come se fosse possibile resistergli) non si chiede di denunciare, non si chiede di uscire da sé ma al contrario di farsi sussurro, codice segreto, di restringere il proprio campo semantico fino a diventare parola d’ordine condivisa da pochissimi, e in tal modo salvacondotto, mappa grazie alla quale uscire dal labirinto d’odio. Così Lessico famigliare è più di una forma di resistenza; non è risposta a un’aggressione ma ostinato, luminoso respiro di vita.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!