Recensione di “I libri di Jakub” di Olga Tokarczuk
Dio, per antonomasia misterioso e inconoscibile, inafferrabile e oscuro, è, per inevitabile
contraddizione logica, il più eminente tra i possibili oggetti di studio (nonché, tra i possibili oggetti di studio, il più approfondito). Dio, la cui natura, la cui essenza, il cui nome stesso ci è sottratto, è per contraddizione logica colui che maggiormente evochiamo, cui più spesso ci rivolgiamo. Dio, per contraddizione logica, è la nostra parola, quando invece dovrebbe essere assoluto silenzio. Ma la contraddizione logica, o meglio ogni contraddizione, tutte le verità e le loro negazioni, la conoscenza del mondo e l’ignoranza del mondo, non sono forse contenute in Dio? Non è forse Dio qualunque pensiero si riesca a pensare e nello stesso tempo tutte le cose che non verranno mai pensate, immaginate, sognate? L’enigma di dio, il suo fardello, e l’uomo, creatura o capriccio (o entrambe le cose) dell’onnipotenza trascendente, che questo fardello è condannato a portare con sé, sono al centro del monumentale e meraviglioso romanzo I libri di Jakub (Bompiani, traduzione di Ludmila Ryba e Barbara Delfino) del Premio Nobel per la Letteratura Olga Tokarczuk. Quest’opera, che in realtà è molto più di un romanzo (oltre mille pagine di teologia, filosofia, mistica ebraica, poesia, cattolica professione di fede, e insieme oltre mille pagine di storie d’amore, gelosie, utopie immaginifiche e sgangherate, brandelli di storia, ascese e cadute, ciarlatanerie così ben congegnate da aver scosso imperi, riscritto destini, corrotto anime a migliaia e offerto possibilità di salvezza a quelle stesse migliaia di anime inquinate e tradite o magari, chissà, ad altre migliaia ancora, che con le prime nulla avevano a che vedere), intreccia la storia di una vita – quella dell’ebreo Jakub Frank, autoproclamatosi Messia – con quella di un secolo (il XVIII), di un popolo (quello ebraico) e di una religione che tuttavia, avendo al proprio centro non un Dio particolare, non il Figlio venerato dai cattolici, generato e non creato, frutto del miracoloso ventre di Maria, la Madre, la Madonna; non il Creatore dell’Universo dell’ortodossia ebraica, non l’Innominabile (che non si può nominare, per il quale non esistono parole umane in grado di reggerne la potenza) senza sosta celato e palesato nei significati che non hanno fine (e con ogni probabilità nemmeno principio) dei testi sacri, della Torah, della Mishnah, della Ghemara, testi cui generazioni di rabbini hanno dedicato le proprie vite consci del fatto che il cammino di ognuno di loro non avrebbe condotto da nessuna parte ma che proprio per questa ragione doveva essere compiuto, perché Dio è in ogni cosa ed è allo stesso modo assenza da ogni cosa, assoluta pienezza e completa pena, e neppure L’Allah dei musulmani dinanzi al quale in totale umiltà ci si prostra non diversamente da come lo schiavo annienta se stesso al cospetto del suo signore, ma quel Dio che gli uomini, nel loro bisogno di distinguersi gli uni dagli altri e lottare gli uni contro gli altri, hanno mutato in idolo con ciò negandone alla radice la possibilità stessa, quel Dio dunque che dimora prima e oltre ogni credo positivo, ogni storica concrezione della fede, probabilmente non verrà mai professata, né che alcuno potrà raggiungere, perché la sua appropriazione coinciderebbe con la realizzazione totale dell’uomo, e dunque con il dispiegarsi della sua natura divina, che in noi riposa solo in forma di effimera fantasia, di illusione.
Ed è per questo, perché la divinità dell’uomo è un sogno, una vana promessa, una concessione impossibile, che Frank, il ritratto di Frank che Olga Tokarczuk consegna al lettore, circondandolo di una miriade di personaggi, dai più umili ai più potenti, è quello di un astuto manipolatore, di un politico scaltro, di un affarista senza scrupoli, di un seduttore instancabile, di un rivoluzionario geniale ma così spaventato dalla grandezza del proprio disegno da imbrigliarlo in una meschina, tragicomica architettura di personale tornaconto; i tempi che la scrittrice polacca racconta nella sua prosa splendida, di mimetica perfezione nel momento in cui la sua voce muta per divenire quella di uno dei suoi innumerevoli caratteri, sono da Apocalisse, e forse proprio per tempi siffatti è venuto nel mondo e al mondo Jakub Frank, l’ebreo che si è fatto prima musulmano e poi cristiano e da cristiano devoto della Vergine perché “è necessario superare le religioni passando attraverso ognuna di esse per giungere finalmente al di là della soglia, alla salvezza autentica, all’uomo nuovo”, il peccatore che assume su sé ogni sconcezza “perché le leggi e la morale che hanno guidato gli uomini fino a oggi hanno ormai perso di valore”. Ma se questi tempi, i tempi che si snodano nelle oltre 1.000 pagine del capolavoro di Olga Tokarczuk non sono la fine dei tempi, non sprofondano nell’Apocalisse per risogere in un’eternità di purezza ma semplicemente passano, come passa qualunque tempo, come passano gli uomini, cosa rimane della splendida, trionfante macchina teatrale di Jakub Frank?
Ci sono, e la storia della letteratura lo dimostra, libri che vanno letti, conosciuti, esplorati, di cui ci dobbiamo appropriare, che abbiamo il dovere di fare nostri. I libri di Jakub, a modesto giudizio di chi scrive, è, in misura eminente, uno di essi.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Il pezzetto di carta inghiottito si ferma nell’esofago da qualche parte vicino al cuore.