Recensione di “I racconti di Sebastopoli” di Lev Nikolaevic Tolstoj
“La presa di Sebastopoli, conclusione sanguinosa della guerra detta di Crimea, che
vide schierati, contro la Russia, l’Inghilterra, la Francia, la Turchia e il Piemonte, costò all’esercito francese 95.000 morti, a quello inglese 20.000 morti, a quello sardo-piemontese 2.000 morti. I Russi persero 110.000 uomini tra soldati e ufficiali. E fra gli ufficiali c’erano certamente i ‘prototipi’ di quei due indimenticabili personaggi del terzo racconto di Sebastopoli, Michail e Vladimir (Volodja) Kozel’tsov, due fratelli che perdono la vita proprio nell’ultima difesa contro i Francesi vittoriosi. I due personaggi sono tra le creazioni Tolstoj più vive e memorabili: anche perché rappresentano un certo ideale di coraggio e di amor di patria che forse altri non avevano, ideale che per il Tolstoj di quegli anni era importante, una manifestazione di profonda moralità. Tolstoj visse personalmente la sfortunata epopea di Sebastopoli, con la fine tragica, un’epopea che non era servita a salvare la fortezza: Tolstoj vi partecipò come ufficiale e, anzi, sul 4° bastione, per poco non ci lasciò la vita […]. La guerra crimeana, specialmente con l’assedio di Sebastopoli, fu molto sentita in Russia, con diverse intonazioni. A parte la retorica ufficiale, i discorsi più o meno sinceri delle autorità, soldati e marinai semplici sentirono la guerra come guerra di difesa del suolo patrio, e la sentirono molti ufficiali, gran parte degli ufficiali: anche se molti di loro, come si vede dai racconti, parteciparono alla difesa di Sebastopoli pensando, più che alla patria, a un più rapido avanzamento di carriera e alle onorificenze. Così sentirono la guerra diversamente i ‘dumaiuscie’ e i ‘ne dumaiuscie’, cioè i ‘pensanti’ e i ‘non pensanti’ come dice Tolstoj. E i ‘non pensanti’, non erano persone incapaci di pensare, ma i semplici, che prendevano i fatti della vita, la guerra, la morte, in maniera più naturale, e che sentivano per la patria, cioè per la ‘loro’ casa, per quella che sentivano, specialmente allora, nonostante le disparità sociali, nonostante la servitù della gleba, come parte di loro stessi […]. Tolstoj, che in tutte le sue opere ignora che cosa siano retorica, falsità e menzogna, definisce, nel secondo racconto, quale è per lui, in queste storie di Sebastopoli, il vero ‘eroe’, il vero ‘protagonista’. La verità. Cioè la ricerca continua della verità […]. Quello che qui vale la pena di ripetere e sottolineare è come egli continuasse a osservare a cercare la verità e l’anima“. Così Eridano Bazzarelli, nell’introduzione al volume, presenta I racconti di Sebastopoli di Lev Nikolaevic Tolstoj (BUR, traduzione di Giovanni Faccioli), una cronaca del drammatico assedio che vide la sconfitta dell’esercito russo (le cui armi e il cui equipaggiamento non erano all’altezza di quelli dell’armata francese) che tuttavia trascende fin da subito i limiti dell’evento narrato (pur in tutta la sua drammaticità) per farsi scavo psicologico e riflessione sulla condizione umana.
L’assedio, la prigionia tra le mura “inespugnabili” di Sebastopoli, i suoi confini, le letali colonne d’Ercole rappresentate dai bastioni, l’ultima trincea che ancora divide i compagni dai nemici, il luogo dove ha signoria soltanto la morte, che può giungere in ogni momento, e dove, come fossero spiriti, o Erinni da tragedia greca, si rincorrono le paure, le speranze, le illusioni e i sogni dei militari (ufficiali e soldati, poco importa), si fanno, nelle pagine del grande scrittore russo, confini del mondo: in questa terra la cui grandezza è cosa trascurabile (oltre i bastioni ad attendere c’è la morte, è vero, ma è solo la circostanza della guerra combattuta qui e ora a far sì che si sappia, con ragionevole certezza, dove la vita potrebbe finire, e la guerra è una circostanza tra le altre, solo più tragica, più assurda; la morte in realtà è dappertutto, ed è proprio il suo essere ovunque, in ogni luogo e in ogni tempo a dover dare all’uomo la forza di vivere in grazia di qualcosa che sia davvero nobile, che abbia davvero significato, che sappia affrontare un giudizio) l’uomo è alle prese con se stesso, ed è costretto a conoscersi, a trovare delle ragioni per amarsi o ad ammettere di doversi odiare. Di fronte al dolore, di fronte alle lingue diverse che il patimento può parlare – le pagine dedicate ai feriti, alle condizioni in cui versano in ospedali che non sono né possono essere ospedali non si dimenticano – quale deve essere la reazione degli uomini? Che si provi vergogna per il fatto di essere vivi quando tutti intorno a noi muoiono, di avere ancora braccia e gambe quando altri sono stati mutilati affinché potessero restare vivi (ma davvero respirare, respirare e basta, significa essere vivi?) può essere sufficiente? Si condivide un destino provando vergogna? Scusandosi? O lo si condivide solo scegliendo la battaglia nell’inferno dei bastioni?
I quadri di guerra de I racconti di Sebastopoli sono chiazze di luce, lampi e fulgore di polvere da sparo che esplodono in forma di pensieri riservatissimi nei diversi personaggi che popolano i racconti. Lì, nelle anime e nei corpi tremanti di quegli uomini le cui domande non hanno risposte possibili riposa una condizione universale, una condizione che la guerra esaspera ma che non ha, neppure lei, il potere di creare dal nulla, perché è con l’uomo, e con il mistero insolubile del suo essere gettato nel mondo, che nasce.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
L’aurora comincia appena a colorare l’orizzonte sopra al monte Sapùn; la superficie azzurro-cupa del mare ha già rigettato da sé le tenebre notturne e aspetta il primo raggio di sole per far giocare il suo gaio scintillio; dalla baia si diffondono freddo e nebbia; neve non ce n’è, tutto è nero, ma l’acuto gelo del mattino punge il volto e scricchiola sotto i piedi, e il lontano incessante scroscio del mare, rotto ogni tanto dai colpi che rombano a Sebastopoli, è solo ad infrangere il silenzio del mattino.