Recensione di “E questa casa diede alla fiamme” di William Styron
“Che di quella provvidenza di Dio, che attende alla vita d’ogni erba, e verme, e formica,
e ragno, e rospo, e vipera, non debba mai, mai più un solo raggio discendere sopra di me; che quel Dio, che su di me volse il suo sguardo, quand’io ero nulla, e che quand’io non ero affatto, come se invece io fossi stato, fuori del grembo e del profondo della tenebra allora mi chiamò; ch’egli non voglia ora guardare a me, ora che, sebbene miserabile, bandita, dannata creatura, pure io sono la sua creatura, e contribuisco in alcun modo alla sua gloria, finanche nella mia dannazione; che quel Dio, che spesso su di me volse il suo sguardo nella mia più immonda impurità, e che quand’io avevo escluso l’occhio del giorno, il Sole, e l’occhio della notte, la Luna, e gli occhi dell’intero mondo, con tende ed imposte e porte, pur egli mi vedeva, e mi vedeva nella sua misericordia, mostrandomi ch’egli mi vedeva, e talvolta m’indusse ad un subito rimorso, e ad astenermi – per quell’attimo – da quel peccato; ch’egli così debba distogliersi da me, e volgersi ai suoi gloriosi Angeli e Santi, che né Angelo né Santo, né Gesù Cristo stesso mai lo preghino affinché su di me volga il suo sguardo, mai gli rammentino l’esistenza di un’anima siffatta […]; che quel Dio che, quando non poté penetrare entro di me col presentarsi, e il battere alla porta, coi suoi mezzi abituali d’accesso, col Verbo suo, con le sue grazie, mise in opera allora le sue sanzioni, e squassò la casa, questo mio corpo, con spasimi e tremori, e questa casa diede alla fiamme, con ardori e terzane, ed atterrì il padrone della casa, l’anima mia, con orrori ed angosce opprimenti, e poté così avere accesso entro di me“. Si apre così, con le infiammate parole di un sermone di John Donne, E questa casa diede alle fiamme di William Styron (Einaudi, traduzione di Giuseppe Fasano), cupo romanzo d’amore e morte, delitto e castigo il cui intreccio, tutto giocato nel giro di una manciata di ore, nello spazio ridottissimo di una notte allucinata richiamata a più riprese da memorie, sogni, confessioni e contrappuntato da parentesi comiche all’apparenza incrongrue e tuttavia talmente prossime all’incredulità e all’assurdo, così vicine alla rottura dell’illusione scenica da risultare necessario elemento d’equilibrio in una storia costruita come riflesso fin troppo umano dello smarrimento mistico disegnato da Donne. Il raggio dello sguardo di Dio e della sua provvidenza di cui scrive l’avvocato e chierico della chiesa d’Inghilterra, muta, nelle pagine di Styron, nelle contraddizioni e nella fragilità di una morale, di un’etica che nasce nel peccato, che ha il fallimento nel proprio destino, o se non il fallimento di certo la caduta, ma che pure, nella coscienza della propria debolezza, lotta per sopravvivere, per non soccombere definitivamente al caos, all’anarchia, all’annientamento di fronte all’insaziabilità di un cieco principio di piacere guidato esclusivamente dall’istinto. Di questa battaglia è simbolo uno dei protagonisti del romanzo, Peter Leverett – siamo in Italia, negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, e l’ambientazione scelta dallo scrittore americano è il piccolo borgo di Sambuco, che così viene presentato nella prima pagina dell’opera: “Su Sambuco in specie la guida Nagel è particolarmente lirica: ‘(m. 309) cittadina d’aspetto singolare, in un paesaggio di straordinaria bellezza; estremamente suggestivo il contrasto fra la sua posizione isolata e l’amenità dei dintorni, fra la decadenza dei suoi antichi palazzi e la fastosità dei suoi giardini. Sorta nel IX secolo sotto il dominio d’Amalfi, Sambuco conobbe particolare prosperità nel XIII secolo'” – di professione avvocato, legato da un curioso e per molti versi inspiegabile (e volutamente inspiegato) legame d’amicizia con il ricco e viziato Mason Flagg, interessato soltanto alle donne al sesso.
E Flagg, nel trasparente parallelismo di Styron, è colui che costringe il senso di giustizia (ma forse sarebbe più esatto dire di decenza) che alberga anche nel peggiore degli uomini, e che finisce per scuotere il pigro e codardo Leverett, a “mettere in opera le sue sanzioni” a dare alle fiamme la casa, a ridurre in cenere una volta per tutte le follie e gli eccessi di Mason, il suo libertinismo spinto fino al parossismo che tuttavia, lungi dall’essere la manifestazione di una natura irrimediabilmente corrotta è ancora una volta una patetica maschera indossata per celare vergognose debolezze, prima fra tutte un’impotenza allontanata da sé a viva forza, negata in primo luogo al proprio io tormentato ed esausto attraverso un’ossessione per la pornografia sbandierata ai quattro venti. E strumento, non certo della collera di Dio ma della necessità di tornare a un disordine in qualche misura tollerabile, che possa non essere in stridente contraddizione con l’imperfezione umana (imperfezione che non può e non deve per forza di cose significare dannazione, questo almeno è l’auspicio del disarmato e amaramente disincantato Leverett), è il terzo attore del dramma, l’artista Cass Kingsolving, un uomo che il lettore conosce nel momento del suo massimo abbruttimento, preda dell’alcool, privo di mezzi, alla mercé della disponibilità economica e dell’invidiosa ferocia di Flagg (malgrado tutto Cass ha una moglie, dei bambini, una famiglia, laddove Mason non può esibire che fidanzate di una bellezza mozzafiato buone solo a recitare una parte, la parte che lo vede vestire i panni di un incallito – e perennemente insoddisfatto – seduttore) e di cui segue, pagina dopo pagina, il lento e inesorabile processo di metamorfosi, fino al momento in cui, consumata la tragedia su cui si regge la trama puramente romanzesca dell’opera (e qui si può riassumere nella consumata espressione di cronaca giornalistica nota come atroce assassinio), il padrone della casa, l’anima, atterrita da orrori ed angosce, si apre all’irruzione di una giustizia falsa e crudele, che lascia in bocca il ferroso sapore della vendetta. Perché nel mondo delle cose umane di quella provvidenza di Dio purtroppo non c’è traccia.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Sambuco. Dell’itinerario Salerno-Sambuco, il volume Italia delle guide Nagel ha questo da dirci: “La strada è tagliata, quasi per l’intero suo percorso, lungo le scogliere della costa”.