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Nella terra dove non si è nati


Recensione di “India” di V.S. Naipaul

recensione - v.s. naipaul - india
V.S. Naipaul, India, Mondadori

Tornare in India, a trent’anni di distanza dal primo viaggio, per cercare una volta ancora

di capire quale sia il proprio stato d’animo, quali i sentimenti che si provano a contatto con la terra che sarebbe stata la propria, con il suolo che si sarebbe chiamato natio se soltanto la famiglia (le generazioni precedenti, quelle esistite prima dei genitori) non avesse deciso di andarsene da lì per approdare ai Caraibi in cerca di nuove opportunità, di successo, o forse solo di un’esistenza meno fragile, di qualcosa che fosse un gradino sopra la mera sopravvivenza. Tornare in India, una realtà in qualche modo sconosciuta e allo stesso tempo un’ossessione, un’idea fissa, una ferita che non vuole saperne di rimarginarsi, un ricordo che non fa riferimento a nulla che sia realmente accaduto e che pure della memoria ha la forza, la persistenza, la capacità di tornare a sempre a galla, non importa quanto a fondo si tenti di imprigionarlo; tornare, rivedere le città, i paesaggi, conoscere gli uomini e le donne, intrecciare la propria vita con quelle di centinaia di altri, scoprire un Paese attraverso le storie di coloro che sono indiani, che l’India ha visto nascere e crescere. Tutto questo è India (Mondadori, traduzione di Katia Bagnoli), dello scrittore premio Nobel per la Letteratura V.S. Naipaul, diario, confessione, riflessione, viaggio, e non ultimo dialogo, dell’autore con il suo passato e con se stesso; in India infatti, a contatto con la sua carne e con il suo spirito, V.S. Naipaul si interroga su quella che è la propria dimensione, sul proprio essere messo a confronto con ciò (un’idea di nazione, un’idea di cultura, di tradizione, di religiosità) che pur non appartenendogli è parte di sé. Cosa significa dunque, cosa significa davvero per quest’uomo la folla che lo investe al suo arrivo a Bombay e che di Bombay è la rappresentazione più vivida e autentica? Bombay sono le persone che brulicano ovunque, è l’impossibilità del silenzio, una solitudine che non può accampare diritti nemmeno nell’intoccabile regione dell’immaginazione, sono le povere case, i quartieri dove manca il necessario, le baraccopoli immense che solo una manciata di strade divide dai quartieri “bene”, dalle case di chi ha saputo trovare, se non la ricchezza, un relativo benessere. E ancora cosa significa per V.S. Naipaul sporgersi verso la fede (o meglio le molteplici fedi, le molteplici divinità) cui gli uomini più diversi affidano le proprie sorti? Che senso ha il dio per chi ha consacrato tutto alla lotta politica? E che cosa significa mescolare le preghiere agli affari? Di più, in base a quale legame è possibile ritenere che il rivolgersi a un’entità superiore sia compatibile con una professione (quella commerciale) ma non con un’altra (quella di imprenditore, di manager) perché a un determinato livello non si può evitare di diventare crudeli, spietati, di un’insensibilità assoluta, e questa è cosa che un determinato credo non può tollerare né giustificare?

A tutte queste domande, che affiorano nelle pagine di India, il grande scrittore non offre risposte; il suo libro, appassionante come e più di un romanzo, non ha lo scopo di condurre a una meta, non ha segreti da svelare; si tratta piuttosto di un grande, magnifico quadro, di un’opera d’arte dove domina il chiaroscuro, dove i giochi di ombra e luce permettono di vedere tutto quanto esattamente com’è, e cioè di volta in volta contraddittorio, sottilmente complesso, in apparenza fin troppo semplice, celato al di là di molteplici strati di verità parziali, o di menzogne ripetute tanto a lungo e per così gran tempo da essere diventate la voce narrante di un popolo.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Bombay è la folla.

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