Recensione di “La saga dei Forsyte” di John Galsworthy
“Quando qualche Forsyte si fidanzava, si sposava o nasceva, i Forsyte erano sempre tutti
presenti; quando qualche Forsyte moriva… ma nessun Forsyte era ancora morto; i Forsyte non morivano; la morte non era contemplata in alcuna legge di famiglia, e contro di essa si avevano le mille precauzioni istintive di chiunque, dotato di una potente vitalità, non tolleri usurpazioni su ciò che gli appartiene“. La morte, il suo spettro, la sua minaccia, evocata al principio del romanzo in contrapposizione all’anelito vitale rappresentato proprio da un fidanzamento, è il filo rosso che lega in un unico, tragico destino, ogni vicenda e ogni personaggio dell’impetuoso romanzo familiare La saga dei Forsyte (Crescere Edizioni, a cura di Alberto Büchi) di John Galsworthy, premio Nobel per la Letteratura nel 1932. Genia devota solo e soltanto agli affari, al profitto, all’accumulo di beni, schiatta di avvocati, speculatori, editori (per i quali la pubblicazione di libri, giornali, riviste, almanacchi altro non è se non un sistema tra gli altri per guadagnare denaro), i Forsyte sono l’orgoglioso emblema dell’Inghilterra vittoriana congelata in un tempo fuori dal tempo, sono lo stampo, il modello di un’aristocrazia cittadina che ha raggiunto la perfezione della forma tanto nelle esistenze individuali quanto nei riti indispensabili e sclerotizzati della socialità e che con consapevole orgoglio rivendicano come intoccabile diritto (di nascita o di posizione conquistata una volta per sempre) ogni privilegio concesso. La fortificata cittadella del loro benessere, un pugno di residenze non troppo distanti le une dalle altre in una Londra che non conosce la lordura delle periferie e che della miseria altrui, non importa quanto estesa, non importa quanto grave, non intende interessarsi, segna i confini di un mondo impenetrabile e autosufficiente, un mondo dove non esistono mancanze, dove ogni minaccia al tranquillo scorrere di giorni, mesi e anni è annullata alla radice. Eccezion fatta, naturalmente, per quella rappresentata dalla morte. Ed è appunto con un decesso, quello della più anziana dei Forsyte, una zia che custodiva quasi per intero la memoria di tutti i componenti del clan, di come la loro fortuna era cominciata, del primo che aveva cominciato a costruirla, che il progressivo disfacimento dei Forsyte inizia.
All’ombra silenziosa e implacabile della morte, che poco alla volta decima i componenti della famiglia, ecco farsi largo l’erosione dei rapporti umani, lo sfibrarsi delle relazioni, ecco emergere, in tutta la sua dirompente drammaticità, l’inganno dei sentimenti, che l’ossequio forzato alle vuote forme e al rispetto di facciata che l’etichetta borghese impone, contribuiscono a rendere ancora più terribile e foriero di sciagure. Così, il fidanzamento che apre il romanzo (tra una giovane Forsyte, e un architetto di gran talento ma privo di mezzi), diviene immediatamente teatro di una tragedia: è quella infatti l’occasione di incontro (e di subitaneo innamoramento) tra l’architetto e la bellissima Irene, moglie di Soames Forsyte, uomo di successo e di gran carattere, incapace tuttavia di comprendere qualsiasi cosa non sia traducibile in un concreto aumento del capitale personale. Egli, innamoratissimo della donna che ha sposato, non è in grado di capire che la moglie non ha mai provato nulla per lui, né mai riuscirà a provare alcunché se non freddezza e una sorta di angosciante ribrezzo, che vorrebbe ma non può combattere; la sua speranza che il matrimonio, la sacra istituzione che porta quel nome, l’agio di cui Irene gode grazie a quel vincolo, operi nella donna un cambiamento che non è possibile avvenga, lo conduce alla lucida follia di pensare che ciò che l’unione tra marito e moglie indica come dovere sia suo diritto pretendere, non importa a quale costo. Ma la donna, lontanissima da lui fin dal giorno infausto delle nozze e se possibile ancor più distante da tutto ciò che Soames è e rappresenta dopo la fulminea attrazione provata per l’architetto, umiliata, sopraffatta, abusata, proprio in forza di ciò che ha subito si fa definitivamente irraggiungibile per Soames.
E nel passare di anni segnati da silenziosi rancori e sofferenze per le quali non c’è sfogo possibile, la morte prosegue il proprio lavoro. I Forsyte scompaiono uno dopo l’altro, le relazioni familiari, che parevano immodificabili, si ribaltano; sorgono inimicizie, si formano insospettabili legami d’affetto, perfino l’amore torna a far capolino, ma non in Soames, non per lui. Egli è uomo destinato alla fortuna, alla ricchezza, ma non al sentimento. La sua passione per Irene, incessante ma sterile, non può nulla e non arriva a nulla perché Soames per primo è incapace di capire la ragione profonda che impedisce a questa donna di nutrire affetto per lui. E nel susseguirsi delle generazioni, nell’invecchiare di Soames, che sembra essere l’unico dei Forsyte immune alla morte (perché la sua vita, a ben guardare, è una maledizione, una condanna, una pena, e va scontata fino in fondo), nel suo amore affamato e moribondo che risorge a nuova vita per la figlia nata da un secondo matrimonio (anch’esso vuoto, privo di vita), ecco riemergere, allegoria brutale e beffarda della morte che questa volta decide di colpire in altro modo, le sue antiche colpe, le sue responsabilità di un tempo, che egli, cieco, brandì come prerogativa del suo stato. Di uomo, di marito, di Forsyte.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Coloro i quali hanno avuto il privilegio di assistere a una festa in casa Forsyte possono dire di aver goduto di uno spettacolo sia piacevole che istruttivo: quello di una famiglia dell’alta borghesia in grande parata.