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Nel gioco, nel vero


Recensione di “Il giuoco delle perle di vetro” di Hermann Hesse

recensione - herman  hesse - il giuoco delle perle di vetro
Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori

“Per tre volte nel corso della sua vita Hesse aveva tentato di opporre all’imperversare dei

sentimenti nazionalistici il contegno del difensore di una tradizione universale dell’umanità che trascendeva i confini dei singoli territori nazionali e che – almeno nella visione di questo poeta, profondo conoscitore delle tradizioni – aveva trovato la sua più alta espressione nelle grandi composizioni musicali dell’Occidente e nella poetica saggezza della filosofia cinese. Questo suo impegno incominciò a manifestarsi nel celebre saggio ‘Amici, non questi accenti!‘, apparso il 3 novembre 1914 sulla Neue Zürcher Zeitung […]. A Hesse non venne certo tributato un caloroso ringraziamento, soprattutto in patria. Lo scrittore si ricordò di questa circostanza proprio nel 1946, anno in cui Il giuoco delle perle di vetro uscì in Germania per la prima volta, e nella prefazione alle sue Considerazioni sulla guerra e la politica scrisse: ‘Da allora in Germania non mi si è più del tutto perdonato per aver criticato il patriottismo e lo spirito guerresco; e anche quando, come oggi, subito dopo la guerra perduta un certo strato della popolazione tedesca nutriva sentimenti pacifisti e internazionalisti e rispondeva ai miei pensieri con una certa eco, anche allora permaneva sfiducia nei miei confronti‘”. Così scrive Hans Mayer nella lunga introduzione all’edizione Mondadori de Il giuoco delle perle di vetro (traduzione di Ervino Pocar) una delle opere più importanti dello scrittore tedesco (che proprio nel 1946 ricevette il premio Nobel per la Letteratura), offrendo come principale chiave di lettura di questo lavoro, che ben poco ha del romanzo e molto della riflessione, del saggio, perfino della confessione (o del nobile, tragico e fiero sfogo di un intelletto, di uno spirito costretto alla clandestinità dalla brutalità del tempo), un’inequivoca presa di posizione antimilitarista. Ora se è indubbio che con questo libro Hermann Hesse abbia inteso levare, nel modo più chiaro possibile, la sua voce di oppositore e critico feroce della barbara follia nazionalsocialista (non per caso il libro, apparso in prima pubblicazione a Zurigo nel 1943, trovò accoglienza in Germania solo a conflitto terminato e, particolare da non dimenticare, vergognosamente perduto), va altrettanto detto, a modesto giudizio di chi scrive, che proprio la guerra, o se si vuole la terribile attualità del momento, e in generale l’idea stessa di politica, e la storia, restano costantemente sullo sfondo, ignorati o quasi nelle 600 densissime pagine che compongono l’opera.

Dal principio alla fine del suo narrare, infatti, Hesse mette al centro il tema che più gli sta a cuore, la contrapposizione tra vita contemplativa e vita attiva e una loro possibile integrazione, l’idea di una terza via che sappia conciliare gli opposti preservandone (di più, valorizzandone) i rispettivi tesori: la prevalenza dello spirito da una parte, la necessaria coscienza della dualità umana, in egual misura compenetrato d’oscurità e luce, dall’altra. Ma questi estremi, di cui sono modelli i personaggi principali del romanzo – Josef Knecht da un lato, giovane predestinato che diverrà, in apparenza quasi senza fatica, al culmine di un percorso di studi e di personale arricchimento segnato solo da vittorie conseguite e traguardi raggiunti, Maestro del Giuoco delle perle di vetro, e Plinio Designori dall’altro, amico e avversario di Knecht, pensatore di eccezionale profondità che a Knecht e alla sua esistenza nutrita unicamente di libri e lontana dal rumore del mondo contrappone l’indispensabilità della sola conoscenza autentica, quella che non esclude ma al contrario ricerca il contatto con il male, la corruzione, l’abiezione – finiscono (per espressa intenzione dell’autore, naturalmente) per essere non solo la sostanza ma anche la forma del suo lavoro; in tal modo Hesse abbandona il lettore nel labirinto della sua platonica repubblica di saggi (la Castalia, cuore pulsante di una Provincia Pedagogica nata, così sembra, in seguito a un parziale ravvedimento dell’umanità, sconvolta e pentita dall’enormità dei disastri compiuti), chiudendolo in una claustrofobica prigione di sapere, la cui eredità e responsabilità egli può affrontare solo attraverso il percorso (protetto) di Knecht. A lui solo è data la possibilità di vedere il mondo per ciò che è davvero, a lui soltanto, nelle dispute dialettiche con Plinio prima, nei serrati confronti con un abate benedettino poi, e infine nel tribolato legame con un concittadino eccentrico e ribelle, amato ma forse mai compreso fino in fondo, è concesso di misurarcisi. E tuttavia sempre a distanza di sicurezza, sempre tenendo la realtà, con la sua concretezza spigolosa, difficile, aspra, al di là del muro di cinta della propria casa, materiale e ideale.

Così la Castalia di Knecht può essere perfetta perché ideale, e ciò che Castalia non è (il nazismo che il romanzo condanna, la guerra, ogni miope e tragico nazionalismo, l’enorme potere distruttivo che l’umanità sa scatenare, e di fatto scatena quando sceglie di non curarsi delle conseguenze, quando decide di perseguire esclusivamente l’interesse del momento) non turbare più di tanto se non coscienze individuali di eccezionale sensibilità. E all’indistinzione della realtà, alla sua opacità che non rassicura ma anzi angoscia perché ne impedisce la messa a fuoco, corrisponde in un riflettersi di specchi che ha il sapore della beffa, quello del Giuoco delle perle di vetro, sublime vetta dell’ascesi castalica, espressione più fulgida di quel che l’umanità potrebbe essere se davvero volesse esserlo, di cui nulla si dice con chiarezza, salvo che coloro che ci giocano padroneggiano il sapere, ogni sapere, con così tanta maestria da poter collegare, perla dopo perla, domini tra loro lontanissimi, come lo sono la vita contemplativa e la vita attiva, che sembrano trovare uno spazio di dialogo solo in un tempo sospeso, immaginifico. Inevitabile dunque, che quando questo tempo antistorico, o forse controstorico, che punta all’impossibilità dell’eterno, scivola nel tempo ordinario dei giorni, ad attendere i suoi sacerdoti ci sia la tragedia. Una tragedia che ha l’effetto di un discorso troncato a metà.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

In questo libro abbiamo intenzione di registrare il materiale biografico che si è potuto trovare su Josef Knecht, il Ludi Magister Josephus III, come è chiamato negli archivi del Giuoco delle perle di vetro.

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