Recensione di “Il candidato” di Gore Vidal
1876. Gli Stati Uniti d’America festeggiano il centenario della fondazione e si preparano
a eleggere il nuovo presidente, l’uomo che succederà al generale Ulysses S. Grant, eroe della Guerra Civile. A osservare il Paese, a rivelarne i segreti, a raccontare nel dettaglio un’America a un tempo ritrovata ed estranea, è un anziano giornalista di ritorno dall’Europa in compagnia della figlia, rimasta vedova (era sposata a un principe francese) e bisognosa di trovare un nuovo consorte. E la penna di questo reporter, che narra ogni cosa in una sorta di diario personale giocando tanto dal punto di vista stilistico quanto da quello dell’architettura concettuale del romanzo, sul tempo (immancabilmente i fatti riportati sono già accaduti, sono il passato, che in quanto tale è immodificabile; ciò che viene detto altro non è se non una mera cronaca, sulla quale al massimo è possibile riflettere), considerato un attore tra gli altri nella furiosa contesa politica che vede democratici e repubblicani gli uni contro gli altri armati per la conquista della Casa Bianca. Ma è davvero così che stanno le cose? Davvero i due partiti rivali combattono senza esclusione di colpi per ottenere il seggio presidenziale? A leggere i resoconti di Charles Schermerhorn Schuyler – questo il nome del protagonista che, assieme a un’indimenticabile galleria di personaggi, alcuni realmente esistiti, altri inventati con grazia sublime e ingegnosa, dà vita a Il candidato di Gore Vidal (Fazi, traduzione di Silvia Castoldi), spietato j’accuse politico-sociale che tuttavia ha i toni di una delicata, crepuscolare elegia amorosa (Vidal, attraverso gli occhi e le parole del suo giornalista, si dichiara a più riprese orgogliosamente americano pur senza risparmiare nulla alla sua terra corrotta e malata) e che nell’intricata trama di relazioni amorose della figlia di Schuyler fa riverberare l’arcobaleno di contrastanti sentimenti che lo scrittore prova per il paese natio – le cose stanno diversamente. Pagina dopo pagina, infatti, confessione dopo confessione, quel che emerge è che la Casa Bianca è un affare privato alla stregua di qualunque altro, dunque una questione di interesse. E Schuyler, il cui mestiere, che egli sa svolgere magnificamente, è proprio quello di conoscere, di sapere ciò che le grandi masse non scopriranno mai, è il primo (in questa sorta di raggelante rovesciamento della dinamica verso-falso che il tempo, sul quale è impossibile intervenire perché tutto viene compiuto dove il giornalista non riesce mai a essere, in momenti che sono in costante anticipo sul suo tempo, che è il tempo di chi può soltanto osservare, mai agire) a rimanere dapprima sorpreso, poi incredulo, infine amareggiato oltre ogni dire da elezioni tradite più che nel loro esito, nel loro fondamento, nel loro significato, nel loro essere.
“8 novembre. Metà mattina. Ho dormito profondamente grazie alle droghe e stamani mi sento un po’ stordito. Ieri notte è successo davvero? Oppure la vittoria di Tilden è stata un altro di quei sogni bizzarri, spesso spiacevoli e spaventosi, che faccio ultimamente. I giornali del mattino mi rassicurarono: Tilden è presidente. Il ‘Tribune’ si dichiara certo della sua elezione mentre l”Evening Post’ valuta che Tilden possa ottenere 209 voti del Collegio Elettorale contro il 160 di Hayes […]. Fui esterrefatto, tuttavia, nel leggere il titolo dell’Herald’: ‘Risultato: qual è? Nessuno riesce a capirlo […]. Impossibile dare un nome al nostro prossimo presidente. I dati sono ancora insuffienti‘ […]. 8 novembre, le quattro del pomeriggio. Gli uffici dell”Herald’ sono in subbuglio. Perfino gli stampatori litigano sui risultati. […]. Raccolsi un telegramma firmato dal comitato nazionale repubblicano. ‘I dispacci ricevuti da questo quartier generale dicono che la Louisiana, la Florida, il South Carolina, il Wisconsin, l’Oregon, il Nevada e la California hanno una maggioranza repubblicana. Non c’è motivo di dubitare della loro correttezza. Se questi dati verranno confermati, l’elezione di Hayes sarà assicurata con una maggioranza di un voto nel Collegio Elettorale”. “Ma nessuna di queste affermazioni è vera” […] Non ancora””.
1876. Il democatico Tilden vinse le elezioni ma fu il repubblicano Hayes a essere eletto presidente. Gore Vidal racconta questa storia con la fiera dignità dell’uomo (ben prima che dell’elettore) sconfitto in un romanzo splendido e angosciante, che guarda dritto in faccia il nostro presente.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
“Quella è New York”. Come se la città fosse mia, indicai il fronte del porto davanti a noi.