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Gwangju

Recensione di “Atti umani” di Han Kang

recensione - han kang - atti umani

Nel suo splendido, disperatamente ghignante Mea culpa, Louis-Ferdinand Céline afferma

che l’uomo è umano pressappoco allo stesso modo in cui la gallina sa volare; l’uccello domestico si alza da terra solo in seguito a un vigoroso e ben assestato calcio nel sedere (e il suo librarsi, peraltro, non è che un salto goffo e sgraziato), l’uomo si ricorda della propria nobiltà, e riesce a solidarizzare con il prossimo, a mettere da parte il proprio egoismo e a non agire esclusivamente in vista del profitto e dell’interesse personale esclusivamente quando qualche collettiva tragedia (il calcio del sedere) lo travolge, ricordandogli la sua natura di persona tra le altre, di unità parte di una molteplicità, di una generalità (l’uomo, l’umanità). L’uomo, la sua umanità misteriosa, il suo sorgere in atti di dignitosa misericordia, di silenziosa accettazione del dolore, della sofferenza, incomunicabile nella sua nudità, indicibile nella sua profondità, inguaribile nei suoi effetti, nei segni che lascia, nelle cicatrici e nelle menomazioni dei corpi, tracce insopportabili alla vista di anime amputate, e nello stesso momento il suo sparire, il suo morire, il suo collassare – come da un istante all’altro collassa la luce del sole durante un’eclissi – nel deserto assoluto di ogni pietà, nella frenesia orgiastica del ricorso sistematico alla tortura, all’umiliazione fisica e psicologica, nella menzogna e nella mistificazione abbracciate senza riserve, impugnate come ragioni a sostegno della propria perversa malvagità – “È possibile testimoniare che mi ficcarono ripetutamente nella vagina un righello di legno di trenta centimetri, spingendolo dentro fino fino alla parete posteriore dell’utero? Che mi lacerarono la cervice uterina con il calcio di un fucile? Che, quando l’emorragia non voleva arrestarsi e collassai, dovettero portarmi all’ospedale per una trasfusione? È possibile affrontare il fatto che dopo continuai a perdere sangue per due anni, che mi si formò un coagulo di sangue nelle tube di Falloppio e rimasi sterile? È possibile testimoniare che sviluppai un’avversione patologica al contatto fisico, soprattutto con gli uomini?” – respirano nel lirismo perfetto del romanzo-capolavoro Atti umani, nella prosa indimenticabile di Han Kang, nella sua narrazione che tutto riduce all’essenziale facendone esplodere il senso ultimo, la sua verità, oltre la quale la parola non può più andare perché non ci sono più confini da oltrepassare, terre da esplorare, e che quasi miracolosamente riesce a osservare il trauma, ad analizzarlo con la precisione professionale del medico e nello stesso istante a sfiorarlo, a scorrerne i contorni, a toccarne il cuore con la cura muta e commossa del fratello, della madre, dell’amico, dell’io stesso mutilato i cui frammenti abitano nelle persone amate.

Gwangju, Corea del Sud, maggio 1980. La popolazione civile (tra loro numerosi studenti, moltissimi dei quali poco più che ragazzi) scende in strada per protestare contro il regime dittatoriale di Chun Doo-hwan. Abolizione della legge marziale, rispetto dei diritti, questo chiedono i manifestanti; l’esercito risponde nella maniera più dura possibile, stronca la rivolta con impressionante violenza, spara sulla folla, imprigiona e tortura centinaia di cittadini senza riguardo all’età, al sesso, a ciò che hanno o non hanno effettivamente commesso. Le brutalità commesse dai militari sono impressionanti; dinanzi all’opinione pubblica vengono giustificate dicendo che i ribelli sono agitatori comunisti, agenti, collaboratori o semplici simpatizzanti della Corea del Nord. I morti si contano a migliaia,, anche se una stima esatta delle vittime non si avrà mai. Fin qui i fatti così come si sono svolti. Fin qui la pagina di storia, una storia quasi del tutto sconosciuta, che i coreani stessi a lungo non hanno osato confessare neppure a se stessi (la dittatura è durata fino al 1988); su questa trama Han Kang tesse il suo disegno, un arazzo di esistenze spezzate che con voce flebile ma ferma raccontano il proprio calvario contrapponendo alla forza bestiale delle armi e degli apparati di tortura statali l’eroismo antico e puro (l’eroismo che è dell’uomo, dell’umanità, della coscienza) di chi agisce in ossequio al proprio dovere, di chi sceglie di fare quel che è giusto fare perché l’alternativa tra il bene e l’opportunità non è davvero un’alternativa ma un atto non umano. Un atto dunque che un uomo non può compiere, pena l’irrimediabile perdita di sé.

Romanzo di straordinaria potenza, Atti umani (Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) è, oggi più che mai, una lettura imprescindibile, una bussola che indica il cammino che ci attende tutti, uno specchio che ci chiama a giudizio.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

“Sembra che voglia piovere” mormori. Che faremo se verrà a diluviare?

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