Il piacere puro del racconto, il minuzioso disegno d’ambiente, restituito al lettore con ampia ricchezza
di dettaglio, con sovrabbondanza calcolata; la costruzione dei personaggi, la loro fisicità scolpita dal tempo e nel tempo, specchio di un’epoca, e i caratteri e i moventi che volta a volta emergono nel succedersi degli accadimenti o d’improvviso s’impongono rubando la scena a tutto il resto, misteriosi nel loro manifestarsi, a tal punto sorprendenti da costringere perfino l’onniscienza del narratore (che del resto è pur sempre condannata alla parzialità, all’insufficienza, a scendere a patti con l’angolo d’ombra dell’inspiegabile) ad arrestarsi dinanzi alle colonne d’Ercole di ciò per cui sembra non esserci ragione, non esserci perché. Tutto questo, presentato in una prosa d’impeccabile eleganza (impreziosita da tocchi di garbata autoironia) è Un ermellino a Cernopol di Gregor von Rezzori (Guanda, traduzione di Gilberto Forti), romanzo che ha quasi la leggerezza di una fiaba, che si snoda lungo il filo di un ricordo, di una memoria tornata fanciulla (a dare vita alla storia sono voci di bambini, anche se quei piccoli sono ormai grandi e ciò che svelano, in primo luogo a se stessi, forse nel tentativo di ritrovare un incanto che pare tramontato per sempre, inafferrabile a loro e, quel che è peggio, sconosciuto a tutti gli altri) per restituire vita a una città intera (la Cernopol del titolo, luogo di pura invenzione e tuttavia autentico) e con essa a coloro che oltre a popolarla ne incarnavano lo spirito. La storia è presente pur restando sullo sfondo, la Mitteleuropra respira in ogni pagina e Cernopol ne è una declinazione quasi perfetta; l’impero austroungarico, per quanto ormai prossimo alla fine, destinato alla rovina, ancora fa udire la propria voce. E quella voce corre, modulata in toni sempre differenti ma riconoscibilissima nella sua universalità, lungo la galleria di figure che di Cernopol sono l’essenza e del romanzo il cuore. Ed ecco dunque, dinanzi agli occhi spalancati di meraviglia dei bambini, stagliarsi la rigida impeccabilità militare del maggiore Tildy, la cui inflessibile dirittura morale, incapace di accettare mediazioni, sorda a ogni scherzo e alla quale è del tutto ignota la possibilità di affrontare una qualunque questione, dalla più seria alla più insignificante, non per la via diretta dello scontro frontale tra punti di vista differenti bensì attraverso metafore e piccole concessioni fatte e concesse allo scopo di evitare litigi e rotture (la cui inevitabile conseguenza è il duello), lo porta, in un parossismo di integrità personale spinta fino al tragicomico, a sfidare a singolar tenzone chiunque si trovi a rivolgergli la parola. Ed ecco ancora, per contrasto con la cristallina ingenuità di Tildy, l’astuzia politica del prefetto Tarangolian, finissimo conoscitore di uomini e proprio per questo burattinaio abile come nessun altro, capace di condurre a buon fine affari personali di ogni genere e sorta senza mai aver l’aria di occuparsi del proprio interesse, e intoccabile e inattaccabile nel mantenimento e nella gestione del potere.
Accanto e assieme a loro, facce opposte di quell’unica medaglia che è Cernopol, una moltitudine d’altri uomini e donne simbolo di popoli diversi e dell’umanità tutta, alle cui esistenze Cernopol guarda con curiosità, interesse, in qualche caso con qualcosa di simile all’indifferenza, mai però permettendosi di voltare le spalle una volta per tutte, mai lasciando qualcuno in balia del proprio destino. Perché se è vero che Cernopol è il volto di un mondo che attende solo di morire, è altrettanto vero che a offrirlo allo sguardo del lettore è chi a Cernopol ha vissuto, nella felicità, gli anni fondamentali dell’infanzia. Ed è la felicità la misura del ricordo, mentre il romanzo (bellissimo, coinvolgente e prezioso dalla prima all’ultima pagina) non ne è che la traduzione. Imperfetta finché si vuole, ma in grado di resistere al tempo e di giungere intatta a chiunque (e chi scrive si augura siano molti) voglia leggerla.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Vi sono realtà estranee e superiori a questa nostra realtà che, essendo l’unica a noi nota, ci appare l’unica esistente.