Recensione di “Lolita” di Vladimir Nabokov
Esiste una ristretta cerchia di scrittori la cui prosa, miracolosamente lieve e nello stesso tempo così penetrante da riuscire non soltanto a raccontare il vero ma addirittura a dargli forma, in qualche modo a costruirlo, non conosce confini, restrizioni, limiti, divieti.
Incurante di ogni cautela, sordo allo scandalo e al disprezzo che potrebbe suscitare, a incolmabile distanza da tutto ciò che conta universale approvazione, il talento narrativo di questi autori, libero e incorrotto com’è, si esprime secondo regole proprie, e assumendosi in pieno la responsabilità della propria voce arriva a far coincidere la parola e la sua declinazione con l’atto “divino” della creazione dal nulla. Così, originate dalla scrittura, le cose respirano e vivono in quella dimensione, ed è soltanto lì, in quel continente di sogno, bellezza e miseria, in quel “giardino dai sentieri che si biforcano” che promette infinite possibilità che vanno conosciute, vissute e giudicate. Membro a pieno diritto di questa affascinante élite estetico-intellettuale è senza dubbio Vladimir Nabokov, che nel suo riconosciuto capolavoro, Lolita, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1955, regala accenti nuovi (di più, una seconda vita) a temi che costituiscono una ricchissima eredità letteraria: l’ossessione, la vendetta, l’amore, la fanciullezza e la maturità, considerate nel loro fluire come età della vita e insieme come momenti unici, distinti, condannati alla separazione e alla solitudine.
L’intreccio, notissimo, ha il tono orgogliosamente sincero della confessione, al punto che il romanzo stesso, grazie a un magistrale rovesciamento di prospettiva, a una radicale ridefinizione dei ruoli che arriva ad annullare presenza e operato dello scrittore a tutto vantaggio del suo personaggio principale, unico io narrante della vicenda, sembra un’emanazione del protagonista, il professor Humbert Humbert, nato nel 1910, figlio di “un uomo amabile e indulgente, una macedonia geni razziali: cittadino svizzero, aveva antenati francesi e austriaci, con un tocco di Danubio nelle vene”.
Finanche la dodicenne Dolores, la ragazzina nei cui confronti Humbert sviluppa una travolgente passione che poco alla volta si trasforma in attaccamento morboso, in un incoerente, febbrile desiderio di prossimità fisica (chiara antitesi di ogni rapporto autentico e trasparente negazione di un’intimità serena e feconda); colei cui egli sacrifica tutto in una grottesca discesa agli inferi che non ha fine e che lo porta a sposarne per meschino interesse la madre e, una volta scoperto, a vagabondare per gli Stati Uniti nel vano tentativo di allontanare una volta per tutti i sospetti, i pettegolezzi, la curiosità importuna del prossimo con il suo carico di moralità a buon mercato, buona per il ricco come per il povero, per la carne come per l’anima, fino a condurlo all’atto estremo dell’omicidio, non è altro che la forma di un pensiero, di un’idea, il faticoso, precario concretizzarsi di un desiderio.
Dolores-Lolita, che esiste esclusivamente nel vivere disordinato e convulso di Humbert, al tempo stesso suo patrigno, amante e compagno, la ninfa che lo conquista e lo stravolge, che riesce a parlare ai suoi sensi e per questo li seduce – “Avevo coscienza di due sessi, nessuno dei quali era il mio; l’anatomista li definirebbe entrambi femminili, ma ai miei occhi, attraverso il prisma dei miei sensi, erano «come il giorno e la notte». Adesso so spiegarmi razionalmente tutto questo ma a venti o trent’anni non capivo il mio tormento con tanta lucidità. Mentre il mio corpo sapeva per cosa spasimava, la mia mente respingeva ogni suo appello. Ero a tratti spaventato e pieno di vergogna, a tratti pervaso da un temerario ottimismo. I tabù mi strangolavano. Gli psicoanalisti mi corteggiavano, cianciando di pseudoliberazioni di pseudolibido” – non appena viene travolta dalla realtà, non appena fugge dall’illusione d’eternità ostinatamente tessuta da Humbert, sfiorisce, si corrompe, in qualche misura muore. Non a caso i suoi “assassini” sono il contraltare dell’adulto-bambino Humbert: da una parte il mellifluo commediografo Quilty, il cui nefando interesse verso la ragazza lascia su di lei cicatrici indelebili, dall’altra Richard, il giovane marito e futuro padre, all’oscuro del passato della donna che ha sposato e animato da sentimenti del tutto privi dell’opacità che caratterizzava quelli di Humbert. Divenuta donna, trattata da donna, Lolita cessa per sempre di essere ninfa; tutto ciò che rimane di lei non è che pallida memoria del tragico fallimento del professor Humbert Humbert.
Lolita è un romanzo magnifico, un canto di sirena di “abbagliante grandezza” (la felicissima espressione è di Pietro Citati). È un libro imprescindibile e di rigoglioso splendore, il racconto perfetto di qualcosa di profondo, suggestivo e terribile; una materia calda, viva, potente, che affidata ad altri mani avrebbe probabilmente prodotto solo un patetico balbettio.
Eccovi l’incipit (la traduzione, edizione Adelphi, è di Giulia Arborio Mella).
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita. Una sua simile l’aveva preceduta? Ah sì, certo che sì! E in verità non ci sarebbe stata forse nessuna Lolita se un’estate, in un principato sul mare, io non avessi amato una certa iniziale fanciulla. Oh, quando? Tanti anni prima della nascita di Lolita quanti erano quelli che avevo io in quell’estate. Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata. Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i serafini, i male informati, ingenui serafini alle nobili ali. Guardate questo intrico di spine.