Recensione di “I Buddenbrook” di Thomas Mann
Un romanzo monumentale, sorretto da una prosa forte, ordinata, composta, trattenuta e nello stesso tempo eccezionalmente ricca. Un materiale narrativo fluido, articolato attraverso un arco temporale di oltre trent’anni, che in alcuni tratti si fa mirabile sintesi di opposti per poi, quasi d’improvviso, ritrarsi in sé, chiudersi, interrompersi, costringersi in angusti corridoi espressivi.
I Buddenbrook, primo romanzo di Thomas Mann, pubblicato al principio del XX secolo, è per vastità e profondità dei temi trattati, per scelte stilistiche, per l’intreccio, così particolare e significativo, tra invenzione creativa e ispirazione autobiografica, quasi un lavoro sperimentale.
Lo scrittore tedesco sorveglia la propria opera dall’inizio alla fine e offre al lettore una storia perfettamente impostata, per certi versi addirittura “rassicurante” (se non altro nella scansione degli eventi e nella descrizione dei destini dei protagonisti, inevitabilmente segnati dal fallimento), ma al di là della superficiale disciplina applicata al testo emergono con estrema chiarezza l’inquietudine, la paura, il disordine emotivo – dell’autore e dei suoi personaggi – che come una corrente elettrica attraversano le pagine di questo capolavoro letterario.
Mann racconta ascesa e tramonto di una famiglia dell’alta borghesia mercantile di Lubecca nel XIX secolo e nel suo procedere, implacabile come una condanna, esplora, con l’entusiasmo e la curiosità dell’esteta e insieme con la metodica precisione dello scienziato, le possibilità pressoché infinite offerte dalla lingua: così, nella prima parte, la solidità non solo economica della famiglia Buddenbrook, che nulla sembra poter minare e che, non senza orgoglio, si veste d’eternità nelle definitive sentenze del console Johann, viene sottolineata da una scrittura tanto puntuale quanto sobria, ragionata nei suoi slanci estetici proprio come la borghesia di cui tratta è castigata nella manifestazione della propria vita interiore.
Eppure il germe della decadenza, come un’invisibile crepa nel muro, è già presente, e Mann lo ritrae, anche se solo in abbozzo, nei caratteri delle giovani generazioni, nei figli piccoli di Jean, secondogenito del console (il primogenito, Gotthold, colpevole di aver abbandonato la famiglia e gli affari per amore, è stato disconosciuto), che saranno protagonisti, ciascuno a proprio modo, della parte centrale del romanzo, la più densa e drammatica. Antonie più di tutti gli altri, donna dal carattere ribelle, che rifiuta la corte del mellifluo Bendix Grünlich, uomo d’affari entrato nelle grazie dei Buddenbrook e deciso a conquistare con ogni mezzo il cuore della giovane, e poi Christian, buono d’indole ma del tutto privo dell’abnegazione necessaria a occuparsi della ditta di famiglia, e infine Thomas, colui che più somiglia al padre e sul quale ricadono tutte le responsabilità. Egli le accetta, si occupa degli affari e degli affetti (suoi e dei fratelli) al meglio delle sue possibilità, ma è un uomo stanco, ostaggio della vita, realtà divenutagli estranea e di cui non ha più il timone.
Ed è a questo punto che la vita, fino a quel momento quasi un giocattolo nelle sicure mani di questa facoltosa famiglia, come tempesta, come un dio vendicativo, si rovescia addosso ai suoi componenti.
Antonie, in vacanza a Travemünde, conosce un giovane e se ne innamora, ricambiata, ma deve rinunciare ai propri sentimenti perché colui che ha scelto è di condizione troppo modesta e soprattutto perché Grünlich, venuto a conoscenza della cosa, si reca dal padre di lei ricordando che per primo ha corteggiato la donna e che questo gli dà dei diritti, cui non intende rinunciare. Allora Antonie, stretta dalle pressioni dei suoi cari, capitola, come altre donne prima di lei, dimenticando l’amore per un uomo e sostituendo a esso la devozione fedele alla famiglia, alla sua prosperità, alla sua illusione d’onnipotenza. Sposa Grünlich, ma poco tempo dopo i Buddenbrook scoprono con orrore che colui che consideravano un uomo d’affari di successo è in realtà un imprenditore sull’orlo della bancarotta, che ha messo gli occhi su Antonie solo per intascarne la dote.
Con geniale intuizione Mann affida la tensione di questo momento (il cuore del romanzo) al folle sarcasmo del banchiere Kesselmeyer, che di fronte all’impietrito padre di Antonie smaschera senza ritegno gli inganni di Grünlich: “Non è facile trovare su questa terra un secondo campione di tanta attività e abilità! Già! Quattro anni fa, quando avevamo per la prima volta la corda al collo… ah, come abbiamo strombazzato improvvisamente in Borsa il fidanzamento con Mademoiselle Buddenbrook, ancora prima che fosse concluso realmente… I miei rispetti… Ah, tanto di cappello! […] Come abbiamo fatto per arraffare la figlioletta e gli ottantamila marchi? Oh, bisogna saper muoversi! Basta avere quattro soldi di attività e tutto si assesta! Si presentano al signor babbo libri ben preparati, libri puliti e carini, dove tutto è in ordine… salvo che non corrispondono del tutto alla dura realtà… Poiché nella dura realtà tre quarti della dote vanno già a sconto delle cambiali!”. E alla replica sdegnata del padre di Antonie, che ricorda al banchiere come egli abbia preso informazioni sul conto di Grünlich prima di autorizzare le nozze, l’uomo replica con gelido disprezzo “Ahah! Informazioni! Di chi? di Bock? di Goudstikker? di Petersen? di Massmann & Timm? Erano tutti d’accordo. C’erano dentro tutti fino al collo! Ed erano ben lieti di mettersi al coperto con questo matrimonio…”.
È la fine per i Buddenbrook, le certezze che la vita aveva dispensato loro fino ad allora si sono dissolte, adesso è necessario lottare, contro tutto e tutti, e la posta in gioco non è più il dominio ma la semplice sopravvivenza. Un compito troppo duro, sia per Jean, sia per il figlio Thomas, che conclude i suoi giorni accasciandosi nel mezzo di una strada, colpito da un male improvviso. Alla dinastia lascia un erede, Hanno, un ragazzo gracile, sensibile, attratto dalla musica, del tutto privo di interesse e di predisposizione per gli affari. Le sue sono spalle troppo fragili per un passato così importante, e per un presente così difficile. La parabola dei Buddenbrook è giunta al termine.
Eccovi l’incipit del romanzo, meravigliosamente tradotto, per gli Oscar Mondadori, da Ervino Pocar. Buona lettura.
«Come dice?… come…dice?…»
«Eh, perbacco, c’est la question, ma très chère demoiselle!»
La moglie del console Buddenbrook che stava seduta accanto a sua suocera sul sofà rettangolare, verniciato di bianco e ornato con una testa di leone dorata – il materassino era rivestito di una fodera giallochiara – lanciò un’occhiata al marito seduto accanto a lei su una sedia a braccioli, e accorse in aiuto della figliola che il nonno, stando accanto alla finestra, teneva sulle ginocchia.
«Tony!» disse. «Credo che Dio…»
E la piccola Antonie, una bimba di otto anni, di fragile costituzione, con un abitino di leggerissima seta cangiante, volse la bella testolina bionda e con gli occhi grigioazzurri guardò in giro per la stanza senza veder nulla e sforzandosi di pensare, mentre ripeteva ancora: «Come dice mai?». Poi soggiunse lentamente: «Credo che Dio» e rischiarandosi in viso continuò in fretta «ha creato me insieme con tutte le creature» e, arrivata sul binario buono, snocciolò raggiante e senza intoppi tutto l’articolo di fede secondo il Catechismo che era appena uscito nell’anno 1835, nuovamente riveduto, col nulla-osta dell’illustre e savio senato.