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Nel labirinto torbido e oscuro di una Londra indimenticabile

Recensione di “Il nostro comune amico” di Charles Dickens

 
Charles Dickens, Il nostro comune amico, Einaudi
Charles Dickens, Il nostro comune amico, Einaudi

Sono pagine di una concretezza impressionante, quasi fisica, quelle che aprono Il nostro comune amico di Charles Dickens, ultimo romanzo compiuto dello scrittore inglese, pubblicato da Chapman e Hall in 19 fascicoli mensili dal maggio del 1864 al novembre dell’anno successivo; pagine di impareggiabile qualità letteraria e nel medesimo tempo cariche di una realtà che non sembra avere nulla di artistico (e forse proprio per questa ragione è arte allo stato puro) né richiamarsi ad alcuna creativa artificiosità; una realtà ben più incisiva di qualsivoglia realismo, che porta il lettore a respirare i miasmi della Londra ottocentesca, a farsi lambire dalle fangose acque del Tamigi, a muoversi circospetto lungo e strade e vicoli di una città ostile, torbida e sudicia, e a toccar con mano la raggelante, inevitabile verità della morte.


È in quest’atmosfera buia e opprimente che prende avvio un romanzo di amplissimo respiro, una storia complessa e incredibilmente vivace, che Dickens, con consumata maestria, dilata per oltre un migliaio di pagine raccontando le vicissitudini di uomini di ogni sorta, e incardinando ogni destino nella più ampia prospettiva di un quadro sociale cui l’autore guarda con un misto di ironico disincanto e sincero sdegno.

L’amico che dà il titolo all’opera è John Harmon, erede di un’immensa fortuna, che tuttavia potrà godere solo se accetterà di sposare una donna che non ha mai conosciuto. Erroneamente creduto morto – il cadavere ripescato nel Tamigi al principio del libro viene infatti identificato come quello di Harmon – l’uomo ha modo di osservare indisturbato la sua futura sposa e molto altro ancora (compreso se stesso); parallelamente Dickens, grazie al racconto delle sue avventure, coglie l’ennesima opportunità di disegnare indimenticabili ritratti delle passioni umane, ma soprattutto di guardare in faccia il proprio tempo e giudicarlo.

Come ben spiega Carlo Pagetti nella prefazione all’opera edita da Einaudi, “la messa in discussione del realismo didascalico, con i suoi valori nitidi e univoci, consente a Dickens di muoversi nel labirinto della città moderna, trasformata e stravolta in un universo fatto di leggi autonome, di esistenze notturne, di luoghi tra di loro inconciliabili eppure contigui, di avvenimenti sorprendenti eppure riconducibili alla storia e alla politica contemporanea. Come un fantasma l’autore di Our Mutual Friendguida i suoi lettori nell’inferno della condizione metropolitana, dove ciò che è familiare si rovescia nel perturbante, e il «nostro comune amico», il misterioso John Harmon che torna dopo 14 anni di esilio a reclamare ciò che gli è dovuto, è costretto prima di tutto a cercare la sua identità smarrita, perduta tra le acque torbide del Tamigi, ridotto alla condizione di uno straniero che osserva inosservato il pulviscolo degli eventi in cui si trova coinvolto, ma, nello stesso tempo, non è da nessuno riconosciuto […], è un uomo invisibile, marginalizzato e insignificante. Un morto vivente”.

Nel felice scioglimento della vicenda, Dickens, che per l’intero romanzo non si è mai allontanato da un registro narrativo crepuscolare, da una prosa greve di preoccupazione e timore, segnata da profondi solchi drammatici – “ogni nuovo passaggio, scrive ancora Pagetti, “mostra il segno di un logoramento, di uno scivolamento verso le regioni delle tenebre, dove regna il silenzio e si avvicina il momento della morte – celebra e abbraccia i valori positivi dell’amicizia, dell’amore, della lealtà e dell’onestà; nella rassicurante scelta del lieto fine, accompagnata dall’equa ripartizione di meriti e castighi a ciascuno dei personaggi che compaiono nell’opera (dai candidi coniugi Boffin, divenuti eredi del patrimonio destinato ad Harmon all’indomani dell’annuncio della sua morte, al cialtronesco e infido Silas Wegg, millantatore di sapere e cultura così spudorato da divenir caricatura di se stesso nel ruolo di “precettore” del signor Boffin, cui legge il celebre lavoro dello storico Edward Gibbon, Storia del declino e della caduta dell’Impero Romano da lui trasformato in Storia della decadenza e scaduta dell’Impero Romano; dagli innamorati Eugene e Lizzy allo stesso Harmon), egli offre al lettore un’ombra di sorriso e un alito di speranza; mai come ne Il nostro comune amico, tuttavia, il provvidenziale intervento di una giustizia distributiva immanente ai fatti suona fragile, precario, prossimo a sfaldarsi completamente.

È di nuovo Pagetti a illustrare, come meglio non si potrebbe, questo punto fondamentale, a mio avviso la pietra angolare del romanzo; a lui dunque lascio l’ultima parola: “La «lettura» dell’esistenza nella molteplicità e nella diversità dei testi che la (s)compongono (ad esempio dei cadaveri che emergono dalle acque del Tamigi) sottolinea che il libro-mondo dickensiano non è più regolato da una forza provvidenziale, ma è piuttosto dominato dalle forze del caso più imprevedibile e del caos, a cui vanno ascritte le passioni e le cupidigie di quegli «uccelli da preda» che sono gli esseri umani, come se Dickens avesse già assorbito molte delle implicazioni terrificanti del nuovo sapere scientifico darwiniano”.

 
Ora eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
 

Ai giorni nostri, ma è inutile precisare l’anno, una sera d’autunno, sull’imbrunire, una barca infangata e dall’aspetto equivoco navigava sul Tamigi fra il ponte di Southwark, che è in ferro, e quello di Lontra, che è in pietra, con due persone a bordo. Le due persone erano un individuo robusto dalla grigia chioma arruffata e dal volto abbronzato dal sole e una fanciulla bruna di diciannove o vent’anni, che gli rassomigliava talmente da farla riconoscere come sua figlia, La ragazza remava, maneggiando con grande destrezza i due remi, e l’uomo, con le mani appoggiate alla cintura, stringeva le funicelle allentate del timone e si guardava attorno ansioso. Non aveva con sé né reti né amo né canna: non poteva quindi essere un pescatore. Non poteva essere un barcaiolo, perché la sua barca non era dipinta, non aveva alcuna scritta e neppure un cuscinetto sopra il sedile, non conteneva altro che un rotolo di funi e una gaffa arrugginita. E infine non poteva essere uno scaricatore e neppure uno spedizioniere fluviale, poiché la sua imbarcazione era troppo piccola per servire al trasporto di merci. Nulla in lui indicava cosa stesse cercando, ma qualcosa cercava con quello sguardo attento e indagatore. La marea, che da un’ora circa era mutata, stava calando, e l’uomo osservava le minime increspature che si producevano sulla vasta distesa, mentre la barca presentava al riflusso ora la prua ora la poppa, a seconda delle direzioni che l’uomo indicava alla figlia con un cenno del capo. Questa scrutava il volto del padre con la medesima attenzione con cui lui scrutava il fiume, ma nel suo sguardo ansioso vi erano orrore e paura.

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