Recensione di “Le perizie” di William Gaddis
Centro di gravità di uno spiazzante romanzo-fiume, la verità – quella materiale con la quale ognuno di noi si confronta quotidianamente e i cui opposti sono menzogna e falsificazione, e il suo concetto, la sua idea, la sua filosofica rappresentazione – ha il fascino illusorio di un fuoco d’artificio, la fragile consistenza di un gioco da bambini e l’incosciente spensieratezza di una burla, di uno scherzo geniale architettato senza pensare alle conseguenze.
Tema cardine dello splendido e quasi sconosciuto Le perizie di William Gaddis (due volumi di circa 800 pagine l’uno, pubblicati per la prima volta nel 1955), il vero, o meglio la sua negazione, la bugia in ogni sua forma, è principio e meta di un intreccio eccezionalmente complesso, di una trama che riunisce in sé un’infinità di vicende minori e le fonde nella superiore unità del paradosso, di un mosaico di storie che sembrano costruite apposta per replicare, nello stesso modo in cui si moltiplicano i cerchi concentrici nell’acqua in seguito al lancio di un sasso, le certezze di cui abbiamo (e facciamo) esperienza, e poi d’improvviso le negano, lasciandoci in preda a un raggelante nulla.
Nel mondo di Gaddis, un “paese delle meraviglie” che non ha nulla di meraviglioso ma dove è norma tutto quel che è fuori dall’ordinario, dove splende abbacinante il sole dell’iperbole, dove ogni cosa non solo non è quel che sembra ma neppure il contrario di quel che sembra, perché se così fosse la si potrebbe con troppa facilità identificare, tutti vivono prigionieri in un gigantesco labirinto di insensatezze, consumando se stessi nella vana ricerca di una via d’uscita; in questa realtà umbratile, che molto somiglia alla caverna del mito platonico, agli uomini non rimane che la parvenza del vero, la sua immagine sfuggente meticolosamente ricostruita nel laboratorio alchemico della falsità.
Tuttavia, a differenza dell’uomo di Platone, schiavo dell’ignoranza ma a suo modo innocente, ingenuo, che in buona fede scambia per sostanza la propria ombra, l’uomo moderno del grande scrittore americano è figlio del peccato originale, conosce la differenza tra la verità e la sua negazione e consapevolmente sceglie la strada della mistificazione, lo spettacolo irresistibile del ribaltamento di prospettiva: in una parola, accetta di sacrificare la libertà autentica del vero (con l’immenso carico di responsabilità che comporta) per godere il piacere della dissimulazione, della potenziale universalità della bugia, capace, seppur per un limitato periodo di tempo, di vestire i panni di chiunque, di essere qualsiasi cosa.
E qualsiasi cosa (a eccezione di se stessi) sono i personaggi che affollano Le perizie, uomini e donne della più diversa estrazione sociale e culturale accomunati soltanto dal fatto di essere, letteralmente, menzogne personificate; nell’immenso castello di carte che Gaddis costruisce – con stile magnifico e fiammeggiante, attraverso scelte linguistiche ardite, funamboliche ricercatezze verbali, scintillanti dimostrazioni teoriche, interminabili digressioni che sembrano avere a proprio oggetto l’essenza stessa del sapere, il senso ultimo della volontà di conoscere – prende forma una storia quasi impossibile da raccontare (ma che una volta cominciata non si riesce più a smettere di leggere), si disegna un orizzonte composito, lungo il quale sfilano, come marionette, il falso medico, il cinico mercante d’arte, il talentuoso pittore specializzato (un po’ per delusione, un po’ per vendetta e un po’ per interessato calcolo) nella contraffazione dei capolavori dell’arte fiamminga, il critico osannato che mette le proprie competenze al servizio del miglior offerente – “La critica”, osserva pungente Gaddis, “è oggi l’arte più importante. Quella di cui abbiamo più bisogno” – lo scrittore perennemente impegnato nella stesura del suo capolavoro, che tutti considerano un plagio senza tuttavia riuscire a indicare quale sarebbe l’opera originale spudoratamente copiata, il severo uomo di chiesa protestante che carica su un carro bianco, colore destinato ai neonati e alle vergini, la salma della moglie…
Oltre a essere un romanzo di rara profondità, di squisita fattura e di travolgente ilarità, Le perizie è il manifesto di una visione del mondo; è la traduzione “disperatamente ottimista” dello smarrimento di un uomo che non riesce più a comprendere il contesto di cui è sempre stato parte, che non regge l’impressionante velocità dei suoi cambiamenti. Scritto alla metà del secolo scorso, questo capolavoro ha una sconvolgente lucidità di visione e una sbalorditiva capacità di anticipare temi e problemi della società d’oggi; moderna per composizione, quest’opera è per contenuto e architettura un classico letterario.
Prima del consueto incipit del romanzo, permettetemi due righe di saluto. Sto per partire per qualche settimana di mare; in questo periodo non aggiornerò il blog, spero avrete la pazienza di attendermi. A tutti voi, un ringraziamento per essere stati come fino a oggi, un arrivederci a presto e un augurio di buone vacanze. Ora spazio a William Gaddis (la traduzione, edizione Mondadori, è di Vincenzo Mantovani). Buona lettura.
Anche a Camilla erano piaciute le mascherate, quelle innocue dove la maschera si può gettare nel critico momento in cui si attribuisce una parvenza di realtà. Ma la processione su per il colle straniero, delimitata dai cipressi, sospinta dal monotono salmodiare del sacerdote e ritardata dalle soste alle quattordici stazioni della Croce (per non parlare del carro funebre in cui ella viaggiava, un bianco veicolo trainato da due cavalli che somigliava a una barocca bancarella di dolciumi), avrebbe forse turbato la timida espressione della sua anima, se fosse stata visibile.
L’affare spagnolo: così, in seguito, lo chiamò il reverendo Gwyon; non con indifferenza, ma con un’aria di riservata preoccupazione. Aveva sempre amato viaggiare, prima; ed era stato questo impulso ad allargare i propri limiti a dare finalmente alla sorte il campo necessario alla sua operazione (in questo caso, una nave in rotta per la Spagna), e a costare la vita alla donna che aveva sposato sei anni prima.