Recensione di “Alta fedeltà” di Nick Hornby
L’amore. Per le donne e la musica. La passione, le brucianti delusioni, il rancore che consuma come un veleno e il solo conforto possibile, il rifugio nei brani che hanno accompagnato una vita intera, negli artisti che hanno fatto sognare, emozionare, che hanno saputo guardare dentro di noi e che più di chiunque altro ci hanno compresi.
Per Rob Flemig, protagonista del vivacissimo romanzo Alta fedeltà di Nick Hornby, tutto ciò che ha valore abita qui, nei sorrisi e nelle carezze delle ragazze che, più o meno maldestramente, ha amato, e nei dischi che non si stanca di ascoltare, che gli appartengono così profondamente da essere diventati il suo lavoro, o meglio, il suo impiego di facciata, un modo per passare il tempo fingendo, al meglio delle sue possibilità, di essere una persona adulta. Rob, infatti, è il titolare di un negozio di dischi, il Championship Vynil, elitario ritrovo per esperti che il giovane gestisce assieme a due amici: è in questo locale romanticamente prossimo alla rovina che i tre trascorrono il loro tempo divertendosi a stilare classifiche su ogni tema possibile e, di tanto in tanto, accanendosi, con impareggiabile perfidia snob, con un malcapitato cliente colpevole di aver avanzato una richiesta “non all’altezza”.
Hornby scrive con irresistibile leggerezza; la sua prosa semplice e arguta è una chiave in grado di aprire tutte le porte, e il suo humour allo stesso tempo delicato e pungente sembra riuscire a ridurre qualsiasi argomento, finanche il più spinoso e denso di implicazioni, a un innocuo ragionar di facezie. Ma per quanto genuino sia il divertimento che la penna dell’autore inglese è capace di dispensare, per quanto primaverile si riveli il suo stile, Hornby non si accontenta di nuotare in superficie; egli riflette, si interroga, mette alla prova opinioni e convinzioni.
Come uno scanzonato filosofo di strada, come un improbabile Socrate dei giorni nostri, Nick Hornby non può fare a meno di chiedersi (e di chiedere al lettore) che cosa significhino davvero le cose che sembrano dare sostanza ai giorni di ognuno di noi; i legami d’amicizia, e più ancora quelli d’amore. E per cercare di comprendere questi ultimi, sceglie di descriverli partendo dalla fine, dall’opprimente fatto compiuto di una relazione fallita; lo fa al principio del romanzo elencando, in rigoroso ordine cronologico (dal 1972 al 1986), le “cinque più memorabili fregature” subite, poi, concluso questo originale prologo, riprende il filo del discorso descrivendo la conclusione della sua ultima relazione: “Laura se ne va lunedì mattina presto, con una sacca da viaggio e una borsa di carta. Dà da pensare, davvero, vedere quanta poca roba prenda con sé questa donna che ama le sue cose, le sue teiere e i suoi libri e le sue fotografie e la sculturina che ha portato dall’India: guardo la sacca e penso: Gesù, ecco fino a che punto non ne può più di vivere con me”.
È Laura, perduta, rimpianta, ripudiata, allontanata per un attimo nell’eccitazione di un nuovo incontro e subito dopo ritrovata, ricordo nitido che non vuol saperne di arrendersi al tempo che passa, il cuore dell’intera narrazione; e Hornby, virtuosisticamente impietoso nel ritrarre in Rob quasi l’archetipo del maschio condannato a una perenne immaturità, alterna, in un girotondo di quotidiane disavventure, malinconici chiaroscuri e fiammate grottesche (spassoso, forse perché incontestabilmente veritiero, il momento in cui lui non riesce a trattenersi dal chiedere a Laura se è già andata a letto con il suo nuovo fidanzato; «Cosa vuoi che ti dica?». «Voglio che tu mi dica che non l’hai fatto, e che la tua risposta sia la verità». «Non posso». E non può nemmeno guardarmi mentre me lo dice), fino al momento in cui un evento drammatico non offre a entrambi l’occasione di rivedersi e, forse di ricominciare.
Alta fedeltà è una lettura disimpegnata, fresca, piacevolissima; un romanzo ottimamente scritto, mai banale, ricco di trovate, di spunti, di scene che potrebbero avere per protagonista ciascuno di noi. Alta fedeltà è quasi il diario che avremmo potuto scrivere, e le sue pagine somigliano a quelle cui abbiamo confidato (e forse confidiamo ancora) i nostri segreti più intimi; probabilmente è per questo motivo che è così facile affezionarsi a questo libro, così naturale sentirlo nostro.
Eccovi l’incipit (la traduzione, per Guanda Editore, è di Laura Noulian). Buona lettura.
Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:
1) Alison Ashworth
2) Penny Hardwick
3) Jackie Allen
4) Charlie Nicholson
5) Sarah Kendrew.
Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammeto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c’è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l’infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po’ come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.