Recensione di “In principio” di Chaim Potok
L’eccitata fantasia di un bambino, la sua sensibilità nervosa, fiammeggiante, che di ogni esperienza disegna arabeschi e intanto immagina, interpreta, sogna il progressivo formarsi del mondo. E la voce dei genitori; il soffio caldo e rassicurante della madre, poi l’autorevole timbro paterno, ragione di tutto quel che accade e principio stesso della vita.
Lungo i confini di questo orizzonte semplice, elementare (patrimonio prezioso e condiviso della prima età dell’uomo), premono, come barbari eserciti invasori, il dolore del mondo e il suo irrazionale procedere: la Grande Depressione che travolge gli Stati Uniti d’America, la contemporanea presa del potere da parte di Adolf Hitler in Germania, lo strisciante diffondersi del veleno antisemita da una parte e dall’altra dell’Atlantico. David Lurie, protagonista dell’intenso romanzo di formazione di Chaim Potok intitolato In principio, vive questi sconvolgimenti come altrettante tappe della sua tormentata crescita personale; protetto dai familiari, ebrei polacchi immigrati a New York, circondato dalla rigida ritualità della comunità religiosa cui appartiene, segnato, specie durante l’infanzia, da una serie di problemi di salute (conseguenza di una fortuita caduta della madre, inciampata sulle scale di casa mentre stava tornando dall’ospedale con il piccolo in braccio), David, nei suoi primi anni, sperimenta in forme diverse la sofferenza, il senso di colpa, l’umiliazione e la paura, quasi che la vita volesse in qualche modo prepararlo ai colpi più duri: il crollo borsistico del 1929 e l’incubo nazista.
Nella sua memoria restano indelebilmente impressi questi “incidenti” – il canarino amato dalla madre volato via dalla finestra che aveva lasciato aperta; il cane di una vicina, da lui scacciato perché si era avvicinato troppo alla culla nella quale dormiva il fratellino, finito in mezzo alla strada e investito da un’auto; l’odio di Eddie Kulanski, un ragazzo del quartiere che detestava gli ebrei “con quella sorta di rabbia folle e demoniaca che per me rimane incomprensibile […] ancora oggi. Aveva solo sei anni, ma il suo odio portava il marchio di un millennio. Qualche mese prima del mio sesto compleanno per poco non mi uccise accidentalmente”; ed è su questi traumi che la sua personalità poco alla volta si forma. I concetti di bene e male, la realtà di Dio che emerge, come da una fitta nebbia, dallo studio dei testi sacri, dalla stretta osservanza delle feste, dalla chiara voce del rabbino in sinagoga, la scoperta allo stesso tempo esaltante e amara dell’amicizia, l’amore e il suo opposto, estremi di cui sembra intessuta l’anima di ogni ebreo, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi, la terra prossima e sconosciuta dei goyim, i non ebrei, assieme ai quali David vive giorno dopo giorno senza tuttavia mai mescolarcisi davvero, la sua ortodossa purezza, rivendicata con orgoglio dagli “adulti” ma percepita come un fardello dal suo cuore di bimbo; è una marea montante di situazioni, e di conseguenti impressioni, quella che investe il giovanissimo David, e che egli racconta, come in un diario, cercando un possibile senso (forse l’unico senso possibile) in una sentenza del Midrash: “Gli inizi sono sempre difficili”.
E appunto a un nuovo, terribile inizio, il crack finanziario che mette in ginocchio il Paese costringe il fiero padre di David (“Prima che il nostro mondo andasse in pezzi e affondassimo nel decennio della Depressione, abitavamo in una bella via, ampia e alberata”), proprio come la tragedia della Shoah, del sistematico sterminio di milioni di ebrei – cui la famiglia di David assiste impotente dall’America, nutrita di speranza e d’illusione e insieme consumata nell’attesa febbrile di notizie dei parenti rimasti in Polonia – mette i sopravvissuti di fronte a un’unica alternativa: ricominciare, tornare alla vita per non soccombere definitivamente all’annientamento.
L’inizio, un inizio differente da quello degli anni d’infanzia, attende anche David ormai adulto, che con coraggio compie le proprie scelte, e, alla ricerca della “verità” (sul suo popolo e dunque su se stesso), di una prospettiva più ampia, più articolata di quella che può offrirgli il suo ambiente di riferimento, decide di studiare anche la Bibbia, il testo sacro dei goyim. In conflitto con la famiglia per questo suo proponimento, isolato dalla comunità, David affida a dolenti sfoghi personali il proprio bisogno di comprensione, la propria ansia di conoscenza, la propria sete d’assoluto: “La Torah non è la parola di Dio rivelata a Mosè sul Sinai. Ma non si tratta nemmeno di storie per bambini o favole o leggende, oppure miti che abbiamo mutuato dai pagani. Io la amo […]. Voglio scoprire che cos’è. Sono pazzo? Devo cercare nel mondo profano nuovi strumenti per scoprire che cos’è. Il mio mondo ortodosso detesta quegli strumenti e ne è terrorizzato. Capisci? C’è qualcuno che capisce […]? Voglio conoscere la verità sugli inizi del mio popolo”. Abbracciare la vertigine della libertà ed esserne pienamente responsabile è il nuovo, difficilissimo inizio di David Laurie.
Come in altri suoi romanzi, Potok narra con accenti vigorosi e commossi la contraddittoria bellezza di un microcosmo ricchissimo di cultura e di storia; egli osserva il proprio mondo con fedeltà piena e sincero amore, ma non con la cieca obbedienza del soldato. David, proprio come altri indimenticabili eroi dello scrittore e rabbino americano (su tutti, il Danny Saunders di Danny l’eletto, già trattato in questo blog), vive pienamente la propria appartenenza, godendone i frutti ma anche mettendola in discussione quando lo ritiene indispensabile; egli comprende l’isolamento cui il popolo ebraico si è condannato per resistere “all’odio del mondo” ma si domanda, senza sosta, se questa sia davvero la sola risposta possibile. E non teme di cercarne altre, quale che sia il prezzo da pagare.
Eccovi l’inizio del romanzo (la traduzione, nell’edizione Garzanti, collana Gli Elefanti, è di Mara Muzzarelli). Buona lettura.
Gli inizi sono sempre difficili.
Ricordo che mia madre mi mormorò queste parole una volta che ero a letto con la febbre. «I bambini si ammalano spesso, tesoro. Succede, ai bambini. Gli inizi sono sempre difficili. Presto starai bene».
Ricordo che una sera scoppiai a piangere perché non ero riuscito a capire un passo difficile di un commentario biblico. A quel tempo avevo circa nove anni.
«Vuoi capire tutto immediatamente?», domandò mio padre. «Tutto così? Hai cominciato a studiare questo commentario solo la settimana scorsa. Gli inizi sono sempre difficili. Lo studio richiede molta applicazione. Leggilo e rileggilo ancora».
L’uomo, che negli anni successivi mi guidò negli studi, mi accoglieva calorosamente nel suo appartamento e quando eravamo seduti alla scrivania mi diceva con la sua voce gentile: «Sii paziente, David. Il Midrash dice: “Gli inizi sono sempre difficili”. Non puoi inghiottire tutto il mondo in una volta sola».
Ora lo ripeto a me stesso quando mi trovo di fronte a una nuova classe all’inizio dell’anno scolastico oppure sto per cominciare un nuovo libro o un articolo. Gli inizi sono sempre difficili. Insegnare come faccio io è particolarmente difficile, perché tocco i sensibili nervi della fede, gli inizi delle cose. Spesso gli studenti ne sono scossi. Ripeto loro ciò che fu detto a me: «Siate pazienti. State imparando un nuovo modo di comprendere la Bibbia. Gli inizi sono sempre difficili». E a volte aggiungo quello che ho imparato per conto mio: «Specialmente un inizio che vi create da soli. Quello è il più difficile di tutti».