Recensione di “Oblò (e il mondo guardo da…)” di Giuseppe Braga
Intanto, per intitolare un libro Oblò, e il mondo guardo da…, nell’epoca di Gianni Togni, ci vuole del fegato. E il coraggio, a me, è sempre piaciuto. E non lo dico per dire (lo dico perché è una delle qualità che più apprezzo). Invece, per guardare il mondo da un oblò ribaltato, a testa in giù, ci vogliono fantasia e sensibilità. E anche queste sono due qualità per cui ho un vero debole. E non lo dico per dire. Insomma, questa favola per adulti, scritta con gli occhi di un bimbo di 10 anni, è come una doccia ghiacciata dopo il bagno turco.
O la sorpresa della crema quando apri in due un wafer. È come scoprire che la barba di Babbo Natale è di zucchero filato e te la puoi mangiare. O che le strade trafficate alla fine sono solo fiumi senz’acqua, pieni di pesci Smart. In più, se quel bambino è pure dislessico, precipiti per incanto nel suo cervello surreale, cominci a pensare sghembo, a cantare stonato, a fare lunghi e improbabili elenchi mentali, a chiederti “perché, se il cemento è armato, non è capace di difendersi”, e diavolerie simili. Cominci anche tu a sentirti pieno di domande inascoltate e di risposte insufficienti. A vivere i gesti di affetto come un dono del cielo o una iattura, a seconda dell’umore del momento. A piangere, perché vorresti fare di più. Dire di più. Capire di più. Ma non ce la fai, perché gli strumenti sono quelli che sono, e uno, alla fine, non può mica chiedere la luna (quella, insieme all’oblò, spetta di diritto a Gianni Togni!). Per fortuna, sullo sfondo di tanta tenera, infantile confusione, ci sono le consolazioni: come una chiacchierata con il pupazzo del cuore, Bart Simpson, o le carezze sulla testa della mamma “morbidosa”, accanto alla quale raggomitolarsi sul divano. O l’abbraccio avvolgente del “panciuto” papà, che ti protegge dalle tue stesse ingenuità e paure. Il mondo visto da un oblò commuove un po’. E un po’ fa ridere. Un po’ riflettere. Un po’ pensare che in fondo i cuccioli hanno sempre mille risorse in più di noi matusa. Perché una mamma malata, che non esce di casa, può diventare il pubblico ideale per la canzone mai cantata “del suo morto preferito”. E un papà che passa ore lontano da casa può diventare l’amico che ti rivela: rincorrere un sogno o una passione val bene qualche muso lungo in più in famiglia. Una famiglia di periferia, di quelle che passano i sabati tra l’oratorio e il centro commerciale. Attraversata dai rituali, le certezze granitiche, le debolezze, le paure, la rabbia di tutti. Filtrata dal candore di un’anima in pena, ma poi neanche troppo. A riprova, se ancora ce ne fosse bisogno, che tutte le difficoltà di un essere umano che cresce si superano se attorno circola – anche sguaiatamente – l’amore.
Giuseppe Braga, mezzosangue milanese, cultore di arti e bellezze irregolari, ha creato una piccola gemma. Che ha il grosso pregio di inondare il lettore di grazia e insolenza. Il suo stile ironico, dissacrante, disincantato, paradossale, del tutto autoreferenziale, è simile solo a se stesso.