Recensione di “Confessioni di un oppiomane” di Thomas De Quincey
“È passato tanto tempo da quando presi l’oppio per la prima volta, che se fosse stato un incidente trascurabile della mia vita, avrei potuto dimenticarne la data: ma gli avvenimenti fondamentali non si possono dimenticare”.
In quest’ammissione, vestita di apparente candore, o se si vuole di ingenua sincerità, Thomas De Quincey, una delle intelligenze più originali e interessanti del suo tempo (fu scrittore, giornalista, saggista e traduttore, e di sé disse d’aver vissuto, nel complesso, “la vita d’un filosofo”), riassume la propria parabola esistenziale ed artistica; un lungo, vertiginoso sogno a occhi bagnato in egual modo da luce e tenebre, un condursi romanzesco e bizzarro, insofferente ad abitudini e certezze, infastidito dalle rassicurazioni, irresistibilmente attratto dalla novità, dall’imprevisto e soprattutto segnato dalla resa alla droga.
Confessioni di un oppiomane, apparso una prima volta nel 1821 (a puntate sul London Magazine) e poi rivisto nel 1856, tre anni prima della morte dell’autore, è un’opera unica, curiosa e tragica, innocente e diabolica; il taglio autobiografico, che pure è la spina dorsale del racconto, come in un perverso gioco di prestigio sembra perdere consistenza proprio quando la narrazione si fa più vivida, la descrizione puntuale, esatta fin dettaglio, esasperata. E in un attimo, ecco che sotto gli occhi del lettore la vita di De Quincey e la sua ossessione svaniscono per lasciar posto all’onnipresenza d’incubo dell’oppio, alla sua malia, al suo oscuro, inattaccabile dominio.
La voce che confessa, allora, priva di volto, non più identificabile, perde la propria verità per ridursi semplicemente a un utile apologo, a un esempio istruttivo. Difficile dire se questa scelta sia dettata da una qualche forma di pudore (che tuttavia striderebbe con la scelta di scrivere, e pubblicare, le Confessioni) o non sia piuttosto lo scherzo raffinato e beffardo di un artista lontano da ogni schematismo, capace con un sol gesto di colpire al cuore la sensibilità inglese, per la quale “non c’è nulla di più disgustoso dello spettacolo di un essere umano che impone alla nostra attenzione le sue piaghe, le sue cicatrici morali, e strappa quel «pietoso velo» che il tempo o l’indulgenza verso l’umana debolezza può avere steso su di esse”, e insieme di sabotare, a beneficio proprio e del pubblico, il potere coercitivo di colpa e miseria, che si nutrono della vergogna e del rimorso che instillano nei cuori degli uomini e come creature d’ombra, “rifuggono […] dalla pubblicità […] adorano l’intimità e la solitudine, ed anche nella scelta di una tomba si separano talvolta dalla popolazione generale del cimitero, quasi ripudiassero ogni comunanza con la gran famiglia dell’uomo”.
Volatile come un’essenza, un profumo, inebriante come una parola d’amore, sconvolgente come una crudeltà commessa senza movente, la scrittura di Thomas De Quincey, preziosa nella sua studiata semplicità, denuncia con naturalezza disarmante, scoperchiando un verminaio sociale da sempre sotto gli occhi di tutti e malgrado ciò da tutti ignorato. “Dunque non mi riconosco nessuna colpa; ed anche se me la riconoscessi, può darsi che mi risolverei lo stesso al presente atto di confessione, in considerazione del servizio che con esso posso rendere all’intera classe degli oppiomani. Ma chi sono questi? Lettore, mi dispiace dirtelo, sono una classe molto numerosa”.
Oratore di eccezionale talento, conversatore elegante e coltissimo, polemista puntuto ma mai aggressivo, artista nel senso pieno del termine, De Quincey, che nel momento più buio della sua dipendenza era arrivato a consumare fino a dodicimila gocce di laudano (oppio diluito nell’alcol) al giorno e che nonostante ciò non si arrese mai del tutto a questa sua dipendenza, arrivando, a prezzo di enormi sacrifici, a una quasi totale disintossicazione, spalanca le porte di un magnifico, opulento labirinto letterario nel quale digressioni, aneddoti, riflessioni e ricordi stanno a dimostrare come nella pagine scritta, nel processo creativo, egli riuscisse a trovare, perfino nei più drammatici frangenti, l’unico saldo rifugio alla sua brama autodistruttiva.
Eccovi, invece dell’incipit, il racconto del primo incontro dell’autore con la droga. La traduzione, edizione Garzanti, è di Filippo Donini. Buona lettura.
Ed ecco come feci conoscenza con l’oppio. Fin da piccolo avevo l’abitudine di lavarmi la testa con l’acqua fredda almeno una volta al giorno; essendomi venuto un mal di denti improvviso, lo attribuii a qualche disturbo provocato dal fatto che per caso avevo interrotto quell’abitudine. Saltai dal letto, immersi la testa in un catino d’acqua fredda, e coi capelli bagnati me ne andai a dormire. Non occorre dire che la mattina dopo mi destai con terribili dolori reumatici alla testa e alla faccia, che non mi diedero quasi mai tregua per circa venti giorni. Credo che fosse il ventunesimo giorno, e una domenica, quando uscii per strada: più per fuggire i miei tormenti, se possibile, che con qualche scopo preciso. Per caso incontrai un collega dell’università che mi raccomandò l’oppio. Oppio! Paurosa fonte di piaceri e di pene che non si possono immaginare! Ne avevo sentito parlare, come avevo sentito parlare della manna e dell’ambrosia, ma non di più: come suonava insignificante quella parola allora! E quali corde solenni fa ora vibrare nel mio cuore! Come mi fa tremare il cuore, scosso da ricordi tristi e felici!