Recensione “I Melrose” di Edward St Aubyn
Una prosa che stilla sangue, incisa nel dolore puro, affamata d’amore e nutrita di disperazione, sfinita come un corpo malato, avvelenata come il morso di un cane rabbioso, fradicia di sterile ferocia, consumata da un odio incontrollato, instabile, sfuocato come lo sguardo miope di un uomo cui abbiano rubato l’unico paio di occhiali che possedeva, prigioniera di un desiderio di vendetta talmente forte da esplodere in fuochi d’artificio letterari di vertiginoso splendore, abissale mestizia e crudele, intollerabile verità.
L’autobiografica tetralogia di Edward St Aubyn (composta dai romanzi Non importa, Cattive notizie, Speranza e Latte materno), rampollo di una delle più antiche e aristocratiche famiglie della Cornovaglia, pubblicata in un unico volume da Neri Pozza, è un lucido incubo esistenziale raccontato con la spietata esattezza della cronaca (come se lo spezzarsi di una vita, o il dispotico esercizio della violenza che ogni generazione si sente in diritto di infliggere alla successiva in una folle coazione a ripetere che sembra negare alla radice l’idea stessa che possa esserci anche solo un’ombra di razionalità, e soprattutto di misericordia, nei modi in cui si declina il nostro essere al mondo, potessero essere narrati come una storia qualsiasi) e nello stesso tempo un terrificante viaggio nell’incomprensibilità del male, nel rigoglioso giardino infernale dove senza sosta germogliano i frutti della sua devastazione.
Riflesso, come lo è un corpo nei mille frammenti di uno specchio frantumato, nella perfezione colma d’ira e di un sarcasmo tanto velenoso quanto impotente della sua scrittura, St Aubyn affida al proprio alter ego Patrick Melrose l’inestricabile groviglio dei propri sentimenti e la volontà ferrea di autodistruzione che ne ha segnato adolescenza e giovinezza, unica possibile risposta all’umiliazione, alla devastazione fisica e psicologica subita all’età di cinque anni, quando per la prima volta il padre ha abusato sessualmente di lui. Scompostamente mimetizzato nel proprio cristallino talento, nella raffinatezza delle descrizioni d’ambiente, nella malvagità squisita e preziosa dei disegni psicologici e del ritratto di un mondo abitato da persone convinte che l’elogio della propria inattualità sia il solo contributo dovuto a una società disprezzata per lascito ereditario – “C’è bisogno di almeno un centinaio di questi fantasmi per generare una sola identità, per giunta incerta e tutt’altro che raccomandabile […]. Sono le stesse persone che hanno popolato la mia infanzia: tutte ottuse e testarde, apparentemente sofisticate ma in realtà ignoranti come capre […]. Sono gli ultimi marxisti […]. Gli ultimi esseri umani convinti che tutto si possa spiegare con la classe sociale di appartenenza. Quando quella dottrina sarà stata abbandonata da un pezzo a Mosca e a Pechino, continuerà a fiorire sotto i tendoni d’Inghilterra. Anche se la maggior parte di loro ha il coraggio di un verme […] e il vigore intellettuale di una pecora stecchita, sono i veri eredi di Marx e Lenin” – St Aubyn prova a distinguere l’uomo e il personaggio, il suo, tuttavia, si rivela uno sforzo vano.
In ogni pagina del suo capolavoro, infatti, che dell’autobiografia ha la sincerità piena ma non un’ombra di stucchevole e ricattatorio egocentrismo, riecheggia una domanda destinata a restare senza risposta, la domanda che lo ha spinto fin quasi al suicidio per abuso di alcol e droga: perché è accaduto quello che è accaduto? Perché sono stato violentato a cinque anni, e poi ancora e ancora? Perché mia madre, alcolista e a sua volta vittima di ingiustizie, non ha opposto che indifferenza e silenzio a tutto questo? Nel cono d’ombra di questo interrogativo Edward St Aubyn ha vissuto gran parte della vita, prigioniero della verità incorporea del dover essere, quella nella quale avrebbe dovuto vivere, nella quale avrebbe avuto, come chiunque altro, il diritto di vivere (“Nessuno”, scrive con una semplicità che non ammette né repliche né contraddizioni di sorta, “dovrebbe fare una cosa del genere a un altro essere umano”), e proprio come il suo alter ego, è riusciuto a liberarsi (seppur parzialmente, imperfettamente) del proprio tormento nel momento in cui ha trovato la forza, il coraggio, la dignità di condividere il suo segreto, di mostrare il suo corpo piagato, di svelare la cicatrice che gli ematomi e i lividi causati dalle siringhe, dall’eroina, dalla cocaina, dalle iniezioni di qualsiasi sostanza possa considerarsi iniettabile, hanno per anni inutilmente tentato di nascondere.
Indimenticabile canto di un’anima, I Melrose è un romanzo che scorre sottopelle e paralizza come un veleno; ipnotico come un canto sommesso e annichilente come lo scoppio di una bomba, lo stile di St Aubyn, per quanto studiato, non ha nulla di artificioso; nel descrivere con sovrabbondanza di dettagli “quel che a nessuno dovrebbe accadere”, dà forma compiuta al suo opposto, la realtà, quella cui tutti apparteniamo, e che non conosce pietà.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Alle sette e mezzo del mattino, con la biancheria stirata la sera prima, Yvette scendeva per il vialetto, diretta verso casa. I sandali battevano leggeri mentre arricciava gli alluci perché non le si sfilassero, e la cinghia rotta la costringeva a barcollare sul selciato pieno di solchi. Al di sopra del muro e all’ombra dei cipressi che costeggiavano il viale, vide il dottore che trafficava in giardino. In vestaglia azzurra e con gli occhiali scuri inforcati, anche se era ancora troppo presto perché il sole di settembre si fosse affacciato da dietro la montagna di roccia calcarea, il dottore dirigeva un getto forte d’acqua dal tubo di gomma che stringeva nella sinistra verso la colonna di formiche che avanzava operosa sul ghiaietto ai suoi piedi.