Recensione di “Tutto Maus” di Art Spiegelman
Ogni tanto è bello rileggersi anche i classici. Va benissimo Marvel Now!, da non perdere il nuovo corso di Dylan Dog, così come la novità Orfani. Fondamentale seguire The Walking Dead, e come pensare di non aggiornarsi sulle prossime uscite di Batman o – che so – sull’ultimo numero di Long Wei? Tutto giusto. Ma poi lanci uno sguardo alla tua biblioteca, così, distrattamente, mentre ci transiti davanti pensando che non hai nessuna voglia di fare un tubo, in questo periodo di limbo post-natalizio, e noti qualcosa di diverso. Ti cade l’occhio su quel volume, un po’ nascosto in un angolo, sotto la catasta dei volumi di Diabolik: è l’edizione completa di Maus, quella che – con opera meritoria – Rizzoli lanciò nel 1998. Da quand’è che non lo leggevo?
Boh, forse proprio dal 1998, quando lo comprai in un negozietto di (mi pare) Pesaro, durante le vacanze estive. Mi viene voglia di rileggerlo, di ricordare la storia di Art Spiegelman e dei suoi scontri verbali con quel suo padre strampalato, anziano, acciaccato, pieno di fissazioni eppure lucidissimo. È un topone antropomorfo, Art, e così suo padre, e così tutti gli ebrei della storia. Dai papà, raccontami di Auschwitz, raccontami della guerra, raccontami di come hai conosciuto la mamma, che voglio farci un libro a fumetti! Che fine ha fatto la mamma? Già, povera Anja, quante ne ha passate. E il vecchio Vladek racconta. Col suo inglese stentato (ottimamente reso in un italiano altrettanto rudimentale dal traduttore Ranieri Carano), lui, poliglotta polacco di nascita, ora in America con la nuova moglie Mala. Racconta al figlio, americano “moderno”, di quando era un ricco industriale, laggiù in Polonia. Stavano davvero bene, negli anni Trenta, famiglia agiata, soldini. E la cotta per Anja, che non era bella come Lucia, ma a lui piaceva davvero tanto. Poi un viaggio in treno, il transito in una piccola stazione di periferia. Sopra ci sventolava una bandiera con la svastica. Era la prima volta che Vladek vedeva una bandiera del genere, chissà perché gli aveva fatto paura. Povero Vladek.
E poi arrivarono i nazisti. Art li disegna come brutti gattacci dall’aspetto feroce. Molto diversi dai polacchi non ebrei, con il loro pacioso aspetto di maiali.
Da lì cominciò la discesa verso il baratro, in un processo infernale. Le leggi razziali, le discriminazioni, il ghetto, le esecuzioni sommarie, le deportazioni. I campi di sterminio. Vladek si racconta, perfino freddamente, ma interrompe spesso il suo narrare per litigare con Art, rimproverarlo perché fuma, perché non svuota accuratamente il piatto, perché spende troppo. Poi di nuovo torna con la memoria ad Auschwitz, ai forni crematori, alle camere a gas. A tutti i suoi espedienti per salvarsi la vita, per salvarla ad Anja, per procurarsi un pezzetto di pane, il modo per sopravvivere. Gli altri no, non ce l’hanno fatta, i suoi parenti, i parenti di Anja, gli amici, neanche il loro primo figlioletto, Richieu. Ma Vladek era forte, molto forte, ha resistito agli stenti e alla fatica. Ed era astuto: sfruttando la sua innata capacità di apprendere rapidamente qualsiasi mestiere, riusciva a farsi piazzare nel posto giusto, a farsi amico il kapo di turno.
Quando alla fine i nazisti capitolarono, il colpo di coda fu terribile: prigionieri deportati con carri bestiame chissà dove, chissà perché. Lasciati a morire nei vagoni, senza poter uscire, senza cibo, senza acqua. Per giorni. Al gelo. Poi il nuovo campo di raccolta. Un amico francese, una rana. I pidocchi. Il tifo. Solo dopo, alla fine, la salvezza, gli americani (raffigurati come cagnoni), cibo, vestiti, il ritorno a casa per vedere cosa ne era stato.
E finalmente, nell’ultimissima pagina del volume, Vladek giunge a raccontare del suo reincontro con Anja. Anche lei era salva. Ricominciarono a vivere. Nacque Art. Sempre insieme, fino alla morte di lei, nel 1968. Ma ora è stanco Vladek, stanco anche di raccontare, di ricordare. “Ferma registratore, ti prego…” dice ad Art. “Sono stanco di parlare, Richieu. E per te basta, per ora…” conclude, confondendo il figlio scomparso tanti anni prima con quello adulto che ha ora davanti… Povero Art. Come si sente il figlio di un uomo che ha vissuto tutto questo, lui, che è invece un ricco e agiato americano, con la sua bella fidanzata Françoise? Come deve aver vissuto il confronto perenne con quel fratello-fantasma mai conosciuto?
Un capolavoro, e che lo dico a fare. Il disegno semplice, senza grigi, un puro tratto, bianco/nero, con una carica espressiva incredibile. I continui salti dal passato al presente, dalla tragedia dell’Olocausto al piccolo dramma familiare del difficile rapporto tra un padre e un figlio così diversi. Quel riportare sulle pagine ogni piccolo evento accaduto durante i dialoghi tra i due personaggi, come quando si inceppa il registratore, quando serve una nuova cassetta per proseguire, quando è ora di pranzo. Vladek ha fame, parliamo dopo, ora mangiamo. Deve riparare il tetto, Vladek, non ha tempo di raccontare ora. Deve prendere le sue pillole. Ha mal di cuore. Il lettore è sempre lì con loro, vive la tensione di quel dialogo, si siede a tavola anche lui, ascolta rapito il racconto di Vladek, lo “sente” dalla sua viva voce.
Ma che ore sono? Forse è meglio spegnere la luce, è tardi, domani voglio scrivere una recensione di Maus. Una recensione? E come si fa a scrivere una “recensione” di Maus come fosse l’ultimo numero di un qualsiasi serial? Dormiamoci sopra, va, devo riordinare i volumi di Diabolik, così da rimettere Maus in libreria. Però più in alto. In una posizione migliore. Per non dimenticarmelo di nuovo per lustri.
P.S. Note tecniche varie e doverose. Maus è stato scritto e disegnato da Art Spiegelman tra il 1978 e il 1991. Suo padre Vladek morì nel 1978. L’opera è strutturata in due parti, rispettivamente di 6 e 5 capitoli: la prima dedicata al periodo prima della guerra, la seconda al periodo bellico, per complessive 285 pagine. Con Maus, Art Spiegelman ha vinto uno speciale Premio Pulitzer. In Italia, la prima parte dell’opera è stata pubblicata da Milano Libri nel 1989, la seconda tre anni dopo dallo stesso editore. Il nostro volume (quello riprodotto nelle immagini) è invece una ristampa completa del 1989, edita da Rizzoli nella collana BUR.
(Antonio Marangi)